«Il Teatro Massimo? Lo gestiva Gioacchino Pennino, lui gestiva tutti i monumenti di Palermo, era un appassionato». Parola di Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, che quel nome sembra conoscerlo bene. «Gioacchino Pennino detto il vecchio aveva fatto tanto per l’Italia e aveva fatto fare figura a queste organizzazioni palermitane, era quello che aveva fatto sbarcare Garibaldi a Palermo e a Marsala, nei garibaldini erano annoverati tante persone di Brancaccio e i suoi parenti – racconta Graviano, ripercorrendo la storia -. Pennino era il capo di Brancaccio. Gestiva anche il Teatro Massimo». Pare che nell’ambiente mafioso, il vecchio fosse conosciuto come il Commendatore.
Suo nipote omonimo, Gioacchino Pennino junior, affermato professionista palermitano e medico con varie specializzazioni, militante politico dapprima nella corrente di Vito Ciancimino e poi in altre correnti democristiane, nonché uomo d’onore della famiglia di Brancaccio e collaboratore dal ’94, di lui dirà che «rappresentava la figura più carismatica nel contesto di Cosa nostra e della nostra famiglia. Era una persona molto estroversa, che si presentava benissimo, che frequentava i maggiori salotti di Palermo dell’epoca, l’alta e media borghesia, la nobiltà, i circoli che allora andavano più di moda, e che tutti chiamavano con rispetto Commendatore, perché mi sembra che fosse Commendatore della Repubblica. Lo stesso oltre a essere ben inserito in questo mondo, era anche ben inserito nella vita politica dell’epoca».
Ma che significava tutto questo, all’epoca? «Il Teatro Massimo era frequentato dalla Palermo bene, lui per sovvenzionare il teatro che era in perdita aveva fatto una bisca clandestina di lusso, c’erano anche dei magistrati e dei giudici, uno di loro era detto borotalco». Quando Pennino si dimette perché ormai anziano, a prendere il suo posto, secondo il racconto di Graviano fatto davanti ai giudici reggini nel processo ‘Ndrangheta stragista, Giuseppe Di Maggio, uomo d’onore molto vicino a Bontate e a Contorno, che sceglie come consigliere Gioacchino Di Caccamo. «Borotalco lascia un debito di 500milioni di lire – torna a dire il boss di Brancaccio -, Pennino aveva lasciato detto di finire con questa vergogna che si era creata al Teatro Massimo». Sono rapporti, questi, che si instaurano già tra gli anni ’50 e ’60 tra uomini di Cosa nostra e la borghesia professionale e politica di Palermo, rapporti all’insegna di una pacifica convivenza.
Un contesto all’interno del quale la figura di Gioacchino Pennino sarebbe perfettamente ben inserita. In quegli stessi anni, tra il ’50 e il ’60, il Circolo di Tiro a Volo , uno dei circoli più esclusivi di Palermo, e il circolo della stampa, che aveva sede all’interno del Teatro Massimo di Palermo, frequentati anche da Gioacchino Pennino junior, erano luoghi di incontro e di socialità non solo di esponenti della nobiltà e della buona borghesia cittadina, ma anche da vari e qualificati esponenti di Cosa nostra. Nomi quello del Papa, Michele Greco, e di suo cognato Giuseppe Castellana. Tra i frequentatori abituali ci sarebbe anche Tommaso Buscetta. Tutti uomini circondati da un certo rispetto. Ci sarebbe stato, trai frequentatori più assidui del circolo, anche l’avvocato palermitano Giuseppe Cerami, secondo i magistrati uomo d’onore della famiglia di Conte Federico poi divenuto senatore e personaggio molto vicino a Pennino junior.
Pennino junior che, grazie proprio all’omonimo zio il vecchio, inizia a sua volta a frequentare i salotti buoni di Palermo, e quegli stessi circoli dove ormai quel nome s’era guadagnato da tempo un notevole rispetto da parte di tutti. Commercianti, banchieri, professionisti, magistrati, politici e, ovviamente, uomini d’onore. Convivono tutti in armonia, a dispetto dei morti ammazzati lasciati lungo le strade dalla guerra di mafia degli anni ’60. Borghesia palermitana da un lato ed élite mafiosa dall’altra che già all’epoca, come accade spesso ancora oggi, andavano a braccetto incrociando a doppio filo i propri destini.
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