Il Teatro che muore e sopravvive

“Quando la magia di uno spettacolo teatrale è capace di rimandarci indietro nel tempo, con una soavità e una leggerezza che non hanno tempo”. Nel 1999 per la prima volta fu messo in scena da Umberto Cantone l’ultimo testo teatrale di Salvo Licata. Meno di un anno dopo Salvo non era più. Quell’ultimo lavoro era “Il Battaglia e il Lumachi”, oggi felicemente riproposto nello stesso Teatro Biondo Stabile di Palermo, fino al 12 febbraio con la nuova regia di Mario Avogadro.
Licata è stato uno dei più noti giornalisti e scrittori-poeti di teatro siciliani. Con questo testo, non ultimo in assoluto perché parecchi restano ancora inediti, Licata rievoca simbolicamente la ‘fine del teatro’ pensando di protrarre quasi all’infinito l’incompiuto “I giganti della montagna” di Pirandello.
Gli attori girovaghi di una compagnia guidata dalla contessa Ilse decidono di recitare “La favola del figlio cambiato”, cercando un luogo nel quale rappresentarla. Giunti all’interno di una strana villa iniziano una rappresentazione che sembra, come in Pirandello, non sapere trovare una conclusione o non volere terminare. Applausi, sussulti, di nuovo l’arrivo dei giganti tra urla, paura e sgomento. Licata immagina la fine del teatro con la morte degli attori ma, nello stesso tempo, la sua sopravvivenza con la sopravvivenza di due di loro, il Battaglia e il Lumache appunto, personaggi smarriti di un post-teatro immaginifico.
Protagonisti dello spettacolo Giancarlo Condè e Paride Benassai, rispettivamente, nel ruolo di Battaglia e Lumachi, Stefania Blandeburgo è la segretaria del direttore del teatro interpretato da Salvo Piparo, la regia di Mauro Avogadro partecipa di uno storico connubio amicale. Voce viva del padre, con la sua canzone “Palermo tu”, scritta da Licata insieme a Ignazio Garcia, è proprio la figlia Costanza Licata. L’associazione da lei fondata è visibile sul web nel sito www.associazionesalvolicata.org.

 

In appendice l’originale nota di regia di Salvo Licata

Dopo la catastrofe*

di Salvo Licata

Il testo nasce da una congettura, quella d’immaginare che non tutti i componenti della “compagnia della contessa” siano periti nella famosa catastrofe de I giganti della montagna di Pirandello. I redivivi sono due piccoli attori, il Battaglia e il Lumachi, indicati con le testuali didascalie pirandelliane, per procedere poi del tutto autonomamente. Trascurabili creature, di cui non si occupa nessuno, nemmeno i giganti, ricordano gli scampati – fortunosamente scampati – alle fucilazioni nazi-fasciste, che seguiranno di lì a poco.
In un paesaggio di devastazione, di corpi che non sono più corpi, questi fantasmi teatrali si nutrono unicamente di elementi della finzione: teatro, cinema, pupi, danza, consapevoli di esistere, semmai esistono, in una risma di fogli.
Il loro eventuale viaggio scenico si svolge in luoghi scenici. Fuggono da un teatro per approdare in un teatro: è questa la loro peripezia.
Quanto al carattere, nessuno dei due è quello che si dice “un povero vecchio”. Entrambi hanno avuto modo di perdere ogni innocenza. Vivono in simbiosi, come ogni coppia. Il reciproco sentimento è complesso: si detestano quanto si sostengono.
Parlano una lingua scarna, che qualche volta si prende la libertà di fare il verso al lessico pirandelliano.
Al di là di qualche vanteria – citazioni sparse di Beckett, Duvivier, Remondi e Caporossi, commedia dell’arte – il testo s’incanala verso la farsa, una farsa stringata, laconica. Come risorse strazianti della rappresentazione, in Battaglia e Lumachi si cerca di mostrare un teatro di rigatteria, di miseri repertori di parole e trovarobato, come i canovacci citati via via, confusi in un groviglio irredimibile, o come il coltellaccio che appare verso la fine, innocuamente.

*Questa nota dell’autore fu pubblicata per il programma di sala della prima edizione del Battaglia e Lumachi, andata in scena nell’aprile 1999 al Teatro Biondo, per la regia di Umberto Cantone

 

 


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