Il Simenon de L’Ora di Palermo

IL 7 GIUGNO DEL 1930 “L’ORA” DI PALERMO PUBBLICO’, PRIMO FRA TUTTI I QUOTIDIANI ITALIANI, UN ROMANZO A PUNTATE DI GEORGES SIMENON, L’ AUTORE DELLE STORIE DEL COMMISSARIO MAIGRET. FINO A OGGI SI CREDEVA CHE “IL CONTRABBANDIERE GENTLEMAN” DI “GIORGIO” SIM FOSSE APPARSO PER LA PRIMA VOLTA SUL SETTIMANALE “IL GAZZETTINO ILLUSTRATO” E, NEL 1931, SU “LA STAMPA” DI TORINO. (a sinistra, foto tratta da simenon-simenon.com)

Come ogni visionario che si rispetti, Georges Simenon amava giocare. Giocava con la realtà, con la letteratura, con se stesso. Era letteralmente posseduto dal demone dell’ironia. Giocando a trasformare in immagini le parole, voleva partire dal metafisico teatrino della sua provincia “nera” per arrivare a interpretare i più realistici segreti dell’identità umana. All’inizio della sua attività, mentre emulava la prolificità di Balzac e prima d’inventare il personaggio di Maigret, Simenon giocò pure a indossare dei soprannomi, più di una ventina, più di quanti mai ne abbia assunti uno scrittore.

Con uno di questi, Georges Sim, firmò l’ennesimo esercizio di stile negli anni del suo apprendistato: “Il contrabbandiere gentleman”, uscito in Francia per Fayard nel 1929 con il titolo “Destinées”, in Italia mai pubblicato in volume e ospitato per la prima volta, dal 7 giugno al 16 agosto del 1930, dal quotidiano di Palermo “L’Ora”.

La mia piccola scoperta da cercatore appassionato è tutta qui, in questo primato palermitano che smentisce le più scrupolose bibliografie dello scrittore belga.

Fino ad oggi si credeva che il merito della prima pubblicazione italiana in un giornale di un’opera simenoniana appartenesse a “La Stampa” di Torino che ospitò lo stesso titolo dal 14 marzo al 3 maggio del 1931, a seguire la pubblicazione nel settimanale veneziano “Il Gazzettino Illustrato” avvenuta nell’ottobre del 1930, quattro mesi dopo l’iniziativa de “L’Ora”. Non era facile accorgersene. E non è detto che qualche altro rabdomante d’inediti prima o poi ci smentisca con un reperto precedente.

Quella di Simenon è, del resto, una costellazione ancora oggi non perfettamente distinguibile. Agli inizi della sua carriera, dal 1919 al 1931, questo bulimico campione della scrittura confezionò – spacciandosi per Jean du Perry, Jean Dorsage, Georges-Martin Georges, Germain d’Antibes, e tanti altri- ben 191 romanzi e 1076 racconti, ai quali si aggiungeranno, fino al 1980, i titoli dell’incredibile corpus firmato col proprio nome, i 76 romanzi e 27 racconti del ciclo Maigret, insieme ai 142 “romans durs” e ai 143 racconti vari, molti dei quali da noi ancora inediti.

In Italia, questo pantagruelico banchetto letterario è stato doviziosamente imbandito da Arnoldo Mondadori che, a partire dal 1932 e con una ventina di collane, contribuì a diffondere soprattutto i longsellers col celebre commissario. Dal 1985 a oggi, invece, sono state le edizioni Adelphi di Roberto Calasso a proporre con successo, per la gioia dei lettori più insaziabili, l’“altro” Simenon, quello dei “non-Maigret”, le perle apprezzate e invidiate da letterati puri come Gide e Céline.

Il romanzo apparso in 45 puntate su “L’Ora”, siglato con uno pseudonimo italianizzato ( Giorgio e non Georges, per fascistica volontà autarchica), appartiene dunque alla stagione del tirocinio, all’iniziale fase “alimentare” nel corso della quale Simenon si allenò, per usare una sua definizione, a “impastare il gesso”, impadronendosi dei più segreti meccanismi del mestiere. Indossando la maschera del “nom de plume” d’occasione, egli giocò la carta dell’ asciuttezza e della sintesi suggeritagli dall’ amica scrittrice Colette (“meno letteratura, mon petit Sim!”), praticando il basso per poter mirare in alto. Il suo campo d’azione fu, in quel primo periodo, il feuilleton: romanzi e racconti dei generi più svariati (dall’ avventuroso al sentimentale, dal gangsteristico al fantasy), a uso e consumo dei lettori di pubblicazioni periodiche a basso costo.

Così, smerciando fiumi di trame elementari, annodando prodigiosamente pensiero figurato e scrittura, affidandosi all’istinto affabulatorio senza mai tornare a correggersi, Simenon impaginò il proprio metodo, sperimentando nuove formule all’interno di forme tradizionali, evitando non senza sforzo il rischio di rimanere un autore dozzinale, invischiato nella trappola dello stereotipo.

“Il contrabbandiere gentleman” è la testimonianza di questa propulsiva forza di volontà autorale. E’ l’intrigante narrazione delle peregrinazioni di una coppia d’immigrati a New York: il parigino “Giacomo” Arbaud e la figlia di un coltivatore irlandese, “Elsa” O’Neil. I due vivono una serie di drammatiche separazioni a causa dei loschi affari di lui, corriere della droga tra la Grande Mela e Parigi e, di conseguenza, costantemente braccato dalla polizia.

Se prendiamo come riferimento le categorie del romanzo popolare postulate da Gramsci, nei quaderni di “Letteratura e vita nazionale”, scopriamo che “Il contrabbandiere gentleman” le comprende un po’ tutte: c’è “il tipo sentimentale” e c’è quello “di puro intrigo”, in un singolare mélange di poliziesco e thriller con esotici sconfinamenti nel genere “avventuroso-geografico”. Simenon volle applicare a modo suo le regole del feuilleton: il contrabbandiere Giacomo, per sfuggire all’ispettore Jackson (tenace come lo Javert de “I miserabili”), si traveste da vecchia signora simile a un cavaliere da cappa e spada, si ritrova invischiato in una guerra tra bande degna di un gangster movie e, a dispetto della sua novella sposa Elsa, s’invaghisce di una “femme fatale” da noir, comportandosi come un nevrotico “vilain” da romanzetto pulp. La riconciliante svolta finale, alla maniera di Carolina Invernizio (nella foto a sinistra), prevede che la coppia protagonista riesca a coronare il proprio sogno di normalità: l’ultima puntata racconta di Elsa e Giacomo in fuga, a bordo di una motocicletta, verso un’agognata “fattoria in Arizona”, un probabile futuro da rispettabili esponenti della middle class.

Al di là di questo vorticoso gioco sugli stilemi, “Il contrabbandiere gentleman” esibisce limpidamente lo schizzo di quelle architetture sulle quali, da lì in poi, andrà a fondarsi l’originale edificio romanzesco di Simenon. Marcate affermazioni di stile appaiono certe velenose annotazioni sulla società statunitense, assieme al vivido tratteggio psicologico di protagonisti e comprimari (perduti tra la folla come nel coevo film di King Vidor), e ad affondi di cinico umorismo col contrappunto, qua e là, di raggelanti passaggi come questo: “In solitudine vanno a morire le bestie feroci, quando sentono che la vita le abbandona, per il pudore di celare cosa sarà un cadavere”. Non sono dunque pochi gli elementi suggestivi che emergono alla lettura di questo prodotto della preistoria simenoniana.

Come poi abbia fatto “Destinées” a finire sul tavolo della redazione palermitana de “L’Ora” è presto detto. Il romanzo faceva parte di un pacchetto di titoli (tra i quali “La collana della Regina” di Alexandre Dumas padre) ceduto al giornale dall’Agenzia Letteraria Internazionale che, dal 1898 per qualche decennio, acquistò i diritti di alcuni feuilletons da pubblicare a puntate su periodici nazionali.

La traduzione de “Il contrabbandiere gentleman” è attribuita a un certo Giulio Bazzi che potrebbe essere uno degli pseudonimi dietro ai quali si nascondeva il fondatore dell’Agenzia, il torinese di origine ebraica Augusto Foà, un bizzarro intellettuale poliglotta che arrotondava così lo stipendio d’impiegato in una società telefonica.

A Foà va il merito di essere stato il primo agente letterario italiano di Simenon, avendo importato una parte della sua iniziale produzione. Asottoscrivere il contratto del romanzo per “L’Ora” fu sicuramente il giornalista Nino Sofia che, dal 1927 al 1932, su incarico del proprietario Filippo Pecoraino, diresse il quotidiano, per alcuni mantenendo una relativa indipendenza che seppe tenere testa ai diktat censori del regime mussoliniano, per altri contribuendo alla definitiva fascistizzazione della testata.

Un segno di evidente anticonformismo appare oggi il fatto di avere ospitato, tra quelle controllate colonne, le inedite avventure del moderno Rocambole di Giorgio Sim. Inquadrato nell’evocativo scenario di New York (per l’ Italietta di allora un modello sia di corruzione che di libertà), il sulfureo ribellismo di Giacomo Arbaud anticipa quello degli “outsider” del Simenon maturo, perseguitati dalla Legge perché in un modo o nell’ altro orgogliosamente anarcoidi, poi descritti in capolavori come “La vedova Couderc”, “La neve era sporca”, “Il fuorilegge”, “Il cargo”, “Pioggia nera”.

Il primato de “L’Ora”, ormai consegnato alle bibliografie ufficiali, svela dunque una piccola ma significativa apertura culturale in quei tempi difficili, e la sua scoperta va considerata un tributo alla gloriosa testata di Palermo, costretta a interrompere traumaticamente le pubblicazioni nel 1992. Quel romanzo remoto, rivelatore di uno straordinario talento in progress, fu pubblicato dal quotidiano palermitano come appendice estiva (nell’ultima pagina e a taglio basso), da giugno ad agosto, con qualche interruzione strategica che lasciò spazio alle conclusive puntate di un altro feuilleton, “Le passioni di una ragazza corsa”, scritto da tale Gaston Richard. Perché i lettori non perdessero nemmeno un capitolo de “Il contrabbandiere gentleman”, “L’Ora” offrì un abbonamento promozionale per tutto il periodo della sua pubblicazione al costo di 33 lire e 20 centesimi.

Era il 1930 e un anno dopo sarebbe uscito negli Stati Uniti “Santuario”, lo scabroso exploit letterario di William Faulkner che avrebbe cambiato per sempre le prospettive del romanzo (non solo del romanzo popolare), la storia di un gangster assai poco “gentleman” e della sua vittima diciassettenne stuprata sull’altare del crimine senza redenzione. In quello stesso 1931, Georges Sim si trasformò in Simenon, gettando finalmente la maschera. Utilizzò il proprio nome per esteso dando alle stampe il suo primo Maigret della serie, l’inchiesta di “Pietr-le Letton”. Decise di servirsi, per la sua missione di disegnatore della psiche umana, di tutte le valenze che distinguono i colori in caldi, freddi e neutri: ne mescolò le temperature, con quella particolare sapienza che è propria dei medium. Continuando a giocare con la letteratura e con la vita, Simenon s’inoltrò così nel Maelstrom della sua indagine preferita: l’indagine, dolorosa e fatalmente autoriflessiva, sull’“uomo nudo”. Sulla materia di cui noi tutti, nel bene e nel male, siamo fatti.

 

 

 


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