Il ritorno di Amiri Baraka che un tempo fu LeRoi Jones

«Il nero in quanto non americano» sono queste le prime parole dello choccante «Il popolo del blues», testimonianza e saggio su quella che il sotto-titolo ribadisce essere «la musica nera nell’America bianca». Il libro esce nel ’63. Ne è autore il ventinovenne LeRoi Jones. Prima di allora pochi erano stati capaci di vedere nel jazz anche una resistenza, dare a quella musica un valore politico. Il romanziere – negro? nero? afroamericano? dipende da chi lo dice, quando e dove – James Baldwin aveva spiegato che «solo attraverso la musica il negro ha potuto raccontare la propria storia. Perché gli americani possono ammirare la sua musica protetti come sono nei suoi confronti da un sentimentalismo che limita la loro comprensione». Dopo «Il popolo del blues» quella visione sentimentale ammuffisce rapidamente: il free jazz inizia a circolare, la new thing – «più che nuova cosa io direi nuova rabbia» se si deve credere al trombettista Don Cherry – arriverà a cavallo dell’intervento Usa in Vietnam e del Black Power in casa. La linea del colore non dipende del tutto… dall’epidermide: sul finire degli anni ’60 lo chiarisce un altro jazzista, Archie Shepp, che in «Fire music» precisa «Fidel Castro è nero, Ho Chi Minh è nero».

A oltre quarant’anni dalla prima uscita «Il popolo del blues» riesce (da Shake in economica) ed è ancora un libro essenziale per capire la storia socio-culturale degli Usa. Nel frattempo LeRoi Jones è vivo e in gran forma eppure… non esiste più: per successive mutazioni è diventato Amiri Baraka. «Nominare è il primo modo per fare esistere» ricorda un proverbio africano; e lui uccidendo Jones (nome da schiavi) è rinato africano. Continua a terremotare cultura e politica degli Usa ma gli editori (quelli italiani ancor meno) non lo amano. Per fortuna negli Usa esistono circuiti alternativi. E anche da noi si trova qualche piccola casa editrice disposta a scommettere su autori come lui, l’esatto opposto della moda da consumare in 40 giorni.

Sia lode dunque a Bacchilega (0542 31208, www.bacchilegaeditore.it) che ci propone questo voluminoso e affascinante «Amiri Baraka, ritratto dell’artista in nero», curato da Franco Minganti e Giorgio Rimondi: sono 12 saggi e un poema a lui dedicati più 15 suoi inediti che vanno dal 1967 fino al 2007.

«Cesaire, Damas, Depestre, Romain, Guillen» elenca Baraka parlando delle sue radici: «e se volete metterla giù dura / tireremo fuori Cleopatra e Annibale […] Non ho neppure menzionato / Toussaint o Dessaline / o Robeson o Ngugi». Siamo nel lungo poema intitolato «Nella tradizione», pubblicato per la prima volta nel 1980 e più volte “aggiornato” per esempio così: «Col Cazzo Che Mi Faccio Mandare In Afghanistan». Esiste una tradizione, una «Bellezza incrinata soltanto dall’oppressione» che «sboccia in questo Suolo Bianco e Razzista» (maiuscole dell’autore). Nella traduzione di Luigi Ballerini – e riportare in un’altra lingua i giochi di parole, i cambi di registro e le invenzioni di Baraka non è affare da poco – ecco questo albero genealogico: «sbocciare sbocciare nella tradizione della rivoluzione Rinascimento Negritudine Nerezza Nerissimo Indacismo». Per finire così: «Canta! Lotta! Canta! Lotta! Canta! Lotta! Ecc. ecc Bushii duuu du duuu di Duuu Duuuuuuuuuuu! E a morte il K K Klan!».

Dal 1967 lui, Jones-Baraka, proclama orgogliosamente di essere «sempre più nero». Anche quando artisti veri o presunti, come Michael Jackson, preferiscono sbiancarsi chimicamente e politicamente. Leggendo i 15 brani di Baraka, e ovviamente le citazioni riportate nei saggi, risulta evidente che la musica nera [blues, jazz fino al rap] resta per lui un riferimento decisivo, ma «si può cantare anche mentre si è in marcia».

Prolifico poeta da… lettura pubblica, incantatore di folle, mago di voci fino al punto da sembrare un ventriloquo. Ma Baraka è anche «uno straordinario poligrafo» come scrive Andrea Ravagnan: capace cioè di praticare «tutti i generi letterari senza alcuna distinzione: dalla poesia al teatro, dalla sociologia alla storia, dal pamphlettismo politico alla fiction». Questo suo essere un «inter-disciplinare» assoluto lo rende poco etichettabile. Poi è afro-americano, ribelle, di religione islamica: quattro volte fuori moda per le case editrici fighettine. Così anche uno di più grandi artisti viventi in America torna a essere invisibile. Come i suoi antenati. Scriveva nel 1952 Ralph Ellison appunto in «Uomo invisibile» (Einaudi) «sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito?»

Un corpo-voce che senza tregua «strapazza e maledice il capitalismo, il razzismo e l’America» e la «sconcia gerarchia del denaro». Consapevole che «persino il linguaggio corrode» Baraka lo ricrea di continuo. «Poesie e saggi affilati come rasoi» (scrive qui John Gennari). C’è chi lo definisce addirittura «l’oceano più vasto del creato» ricorda Minganti. È comunque «strabiliante e necessario». Compara l’incomparabile, come annota Rimondi: «Ergeste Trismegisto e Jean-Paul Sartre, Bisanzio e Willie Best, gli egiziani, Prassitele e Lester Young». Mescolando persino Einstein, Big Bang e fantascienza: «finché il tempo, questa follia bianca, scomparirà» ghigna Baraka.

Davvero troppe le suggestioni di questo libro, impossibile riassumere i temi dell’antologia come quelli che affiorano nei saggi. Baraka rivendica oggi il ritorno negli Usa del griot africano e forse quel che ci serve è proprio una antica-nuova specie di narratore della comunità. Come scrive anche un griot afro-italiano, Koffi Michel Fadonougbo in un libro che è utile segnalare in contemporanea allo scritto di Baraka intitolato «Griot/Djali. Poesia, musica, storia, messaggio» (che Minganti e Rimondi, i curatori del volume e l’editore ci hanno autorizzati a riprodurre nel nostro sito). L’eredità culturale africana come «grimaldello» per scardinare l’eccesso di razionalità occidentale.

[da www.carta.org]


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