Qualche anno fa, dopo una partita come quella di ieri (il Cittadella penultimo che ci batte tre a due sul nostro campo) saremmo usciti dallo stadio con un groppo in gola. Portandoci dietro lacrime di rabbia e di delusione, lacrime asciutte magari, ma pur sempre lacrime. L’avremmo presa insomma molto sul serio, questa sconfitta alla penultima giornata che ci nega ancora la salvezza della quale, da un mesetto a questa parte, ci proclamiamo certi; e ci minaccia di aggiungere a questo già orribile campionato la coda mostruosa di due spareggi per non retrocedere.
Ora, non so voi, ma io non riesco ancora a cogliere a fondo la serietà della situazione. E anzi, se dovessi trovare un aggettivo per definire ciò che ieri ho visto in campo, non me ne verrebbe uno migliore di grottesco. Aggettivo abusato, lo so, nel linguaggio dei giornali. Ma che a me viene in mente nell’accezione in cui lo intendeva Luigi Pirandello; a dire del quale «anche una tragedia, quando si sia superato col riso il tragico attraverso il tragico stesso, scoprendo tutto il ridicolo del serio, e perciò anche il serio del ridicolo, può diventare una farsa».
Già: perché nella tragedia (tutta sportiva, s’intende) di un pubblico sedotto e abbandonato dalla sua squadra, costretto a vederla boccheggiare davanti a un qualsiasi Cittadella, c’è anche il ridicolo di dover vedere gli stessi impotenti spettatori costretti a disinteressarsi del gioco per lanciarsi nei meandri dell’aritmetica e del calcolo delle probabilità: sgranando, per tutto l’arco delle partita, le diverse possibili— ma non sempre probabili — combinazioni degli altrui risultati che potrebbero ancora consentire al Catania di salvarsi. Perfino se, dopo la partita di ieri e quella di sabato scorso, riuscisse a perdere anche la prossima, ultima del campionato.
E poi, nella tragica impotenza (tragica, s’intende, dal punto di vista prettamente atletico) di un insieme di pappamolle incapaci di correre, di un branco di pelandroni che hanno cominciato il campionato con i muscoli fracassati e lo stanno completando senza fiato nei polmoni — in questa impotenza che chiama in causa le serissime responsabilità degli scienziati strapagati cui s’era affidato gran parte del futuro di questa squadra — c’è tutto il ridicolo di una partita in cui non una volta, ma anche una seconda e poi una terza, all’avversario si permette di arrivare al tiro indisturbato dal centro dell’area, in posizione da cui qualsiasi schiappa farebbe gol. In cui si commettono una serie di errori da oratorio, con una pervicacia impensabile in qualsiasi calciatore serio. Specialmente in una giornata come questa e a questo punto della stagione.
E allora Pirandello ci viene in mente anche per un’altra ragione: per il sottile umorismo della sua arte che scompone il reale, ne mette in dubbio la verità, costringe la grande recita dell’esistenza a calare la sua maschera e a rivelarsi nuda, per quello che è: recita appunto, inganno. Come recita e inganno è parsa, da due anni a questa parte almeno, la gestione tecnica ed aziendale della squadra di calcio che indossa le maglie che, da bambini, ci siamo attaccati addosso. E che noi, ma noi soltanto, non riusciamo a toglierci più di dosso.
Eccolo, dunque, il serio del ridicolo: che sta nell’averci sottratto la possibilità di illuderci, almeno per quel paio di ore alla settimana che il calcio ci ritaglia nella prosa della vita; consentendoci di viverlo, questo gioco, come se esso fosse ancora capace di regalarci momenti di verità. Ciò che ieri ci siamo resi conto di aver perduto è appunto l’ingenua poesia di una palla che rotola, e porta con sé amori, passioni e dolore; per precipitarci — in giorni in cui rischiamo una retrocessione che potrebbe perfino cancellare il calcio da Catania — nello scetticismo algido di chi non crede più a nulla.
Ma come si fa, del resto, a mantenersi seri davanti a una farsa?
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