Il reportage fotografico: la ricerca del proprio spazio attraverso l’immagine

Si è concluso il laboratorio del Medialab sul “Reportage fotografico” coordinato da Jessica Hauf e dalla sua collaboratrice Manuela Partanni.
La tematica di questo progetto, a cui hanno partecipato venti studenti della facoltà di Lingue, si basa sulla valorizzazione delle immagini dello spazio circostante riprese dentro e fuori dal Monastero dei Benedettini e messe in risalto in particolare dalla stampa in bianco e nero che ne esalta luci e ombre.
Nell’attesa della mostra che verrà allestita all’interno del monastero il 12 maggio, abbiamo chiesto alla coordinatrice di parlarci meglio di questo progetto creativo.

Cosa si vuole esprimere e raccontare attraverso le immagini di questo reportage fotografico?
L’obiettivo è stato quello di ricercare e ritrovare il proprio spazio attraverso l’immagine, cioè di immagazzinare ed esprimere quello che i ragazzi sentivano e che volevano trasmettere, unendo questo alla tecnica e quindi allo sviluppo e alla stampa nella camera oscura.
Per loro era importante il particolare, perché rappresentava in quel preciso momento ed in modo più distinto una parte del monastero, una parte di quel posto che i ragazzi vedono quasi ogni giorno. I particolari che li colpivano maggiormente erano le finestre viste dall’esterno.

Come è proseguito il lavoro in camera oscura?
La camera oscura è la palestra della fotografia: c’è tutto un rapporto con gli oggetti circostanti che fanno parte di questa camera, che io definirei segreta, per cui si entra in un universo parallelo, un altro rispetto a quello del digitale a cui ormai tutti possono accedere con facilità.
I ragazzi seguivano e partecipavano alle varie fasi con attenzione. Questa fase permetteva loro di capire meglio cosa volevano dall’oggetto fotografato. Io, pur seguendoli man mano nelle varie fasi, li ho lasciati liberi di scegliere anche i provini delle foto migliori. Sin da subito con soddisfazione ho visto i risultati positivi.

Solitamente come si rapportano i giovani di fronte ad un lavoro artistico e creativo come quello della fotografia?
Nei giovani l’interesse che ritrovo è sempre lo stesso: curiosità, meraviglia, ingenuità e stupore nel vedere come una carta bianca diventi all’improvviso un’immagine. Grazie alla loro voglia di fantasticare i giovani sono più inclini a questo fascino, sempre presente ma più raro negli adulti.

Lei ha già avuto in passato l’opportunità di avvicinare i giovani al mondo della fotografia attraverso un progetto sull’insegnamento della fotografia in un campo profughi della Jugoslavia ed il coordinamento di una galleria vicino Belgrado riconosciuti a livello internazionale. Vi sono delle sostanziali differenze tra i giovani che lei ha incontrato e con cui ha lavorato qui in Italia e quelli della ex-Jugoslavia?
E’ ovvio che lo stupore c’è sia in un giovane italiano che in uno jugoslavo, però la carica forse è diversa, perché sono due realtà a confronto diverse. Lì vi erano dei ragazzi che avevano vissuto la guerra e qui invece dei ragazzi che non l’hanno vissuta ma che vivono altre realtà.
L’unica differenza è l’approccio. Io ho vissuto e lavorato per otto mesi in un campo profughi e ho potuto conoscere l’identità apatride del profugo. Loro, un po’ per necessità ed un po’ per cultura, erano in ogni situazione un’anima collettiva, come tanti corpi in un corpo unico. Avevano tutto in comune ed un modo di vivere civico diverso dal nostro. All’inizio mi aveva colpito questa idea di collettività che è tipica dei paesi dell’Est e a cui noi non siamo abituati, poi ho capito che non era del tutto positiva. La fotografia infatti in un primo momento tende ad un individualismo, cioè in pratica ti ritrovi da solo dietro la macchina fotografica e quindi sei costretto ad uscire dal gruppo. Posso dire che per un periodo sono riuscita a distaccarli da questa idea ed è stato come aver vinto il fatto di stare sempre tutti insieme.

Per tutti i partecipanti è stata la prima opportunità di avvicinarsi a questo lavoro. Ciò che ha spinto i ragazzi a scegliere questo laboratorio è stata la loro passione per la fotografia che prima coltivavano da soli come autodidatti.
Abbiamo chiesto ad alcuni di loro le loro impressioni ed i loro giudizi.

Magda: “Questo laboratorio, per il tipo di lavoro che bisognava svolgere, è durato troppo poco tempo avendo avuto a disposizione appena venti ore. Però è stata comunque una bella esperienza e non sembrava una semplice attività di studio. E’ stata originale l’idea di sviluppare le foto in bianco e nero, in quanto al giorno d’oggi questo tipo di sviluppo non viene utilizzato quasi più”.
Laura: “La pratica, cioè il lavoro in camera oscura, è stato davvero interessante, perché ritrovarsi a contatto con tutto il materiale che occorreva per far diventare i nostri scatti delle vere e proprie immagini fotografiche era una grande soddisfazione e considerando il fatto che siamo dei principianti, oltre alla breve durata del corso, i risultati sono stati buoni”.
Marina: “Abbiamo dovuto usare macchine manuali-reflex, utilizzate soprattutto tanti anni fa, mentre non era consentito l’uso delle digitali e di quelle automatiche. Si sa che con il digitale è diverso, diviene tutto più semplice. E’ stato appassionante e divertente catturare le immagini, perché noi stessi dovevamo renderci conto del tempo di esposizione e per fare anche una foto sola a volte ci stavano cinque minuti, tra l’altro nelle posizioni più assurde e scomode per scattarla!”.

Valeria Arlotta

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