Intervista a Mario Morcellini, presidente del coordinamento nazionale dei corsi di SdC: "Pensando al caso dell'Università di Catania, credo sia molto poco proficuo avere diversi corsi in SdC"
Il numero chiuso s’ha da fare!
A pochi giorni dall’ultima riunione della “COMFERENZA”, ovvero del coordinamento nazionale dei Presidi e dei Presidenti di Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, tenutasi a Roma lo scorso 4 febbraio, il Presidente, nonché Preside della facoltà di SdC di Roma, prof. Mario Morcellini ha accettato di rispondere alle domande di Step1.
Professore, che idea si è fatta sul grado di omogeneità delle facoltà e dei corsi di laurea di SdC in Italia?
Si tratta di esperienze abbastanza diverse tra loro, sia in termini qualitativi che di profilo culturale. Come presidente io spingo con forza verso la differenziazione dei corsi di laurea e un’oculata autonomizzazione dei curricula. E’ ovvio che solo attraverso la diversificazione si può creare un sistema formativo nazionale sufficientemente variegato, che non disperda risorse creando inutili duplicati ed abbassando la preparazione. Ritengo ad esempio molto positivo il fatto che siano nati ben otto corsi interfacoltà. Il problema dei corsi di laurea attivati all’interno delle facoltà letterarie è la tendenza a configurare Comunicazione come un ennesimo percorso filologico-letterario, snaturando l’interdisciplinarietà e la vocazione del corso in sé.
Può darci qualche dato sull’andamento delle iscrizioni?
A differenza di quanto pensano molti noi abbiamo registrato un enorme aumento delle iscrizioni dopo l’attuazione della riforma. Come se la laurea triennale, con la promessa di abbreviare gli studi universitari, avesse attratto un bel po’ di studenti di diverse fasce d’età con un forte bisogno di formazione ma con motivazioni differenti rispetto al passato. Ecco uno dei tanti motivi per cui siamo passati al numero programmato. Benché anche Almalaurea abbia riconosciuto che la qualità degli iscritti a Scienze della comunicazione è molto alta, negli anni passati ci siamo trovati a fare i conti con una popolazione studentesca non sufficientemente motivata, il che ha provocato un affollamento tale da rendere necessarie misure come il numero programmato. Questa situazione, ripeto, si è venuta a creare però solo dopo l’attuazione della riforma. Viste le caratteristiche del nostro CdL, l’offerta di lauree specialistiche e le indagini di mercato, abbiamo ritenuto che fosse indispensabile creare degli sbarramenti a vantaggio soprattutto della qualità della formazione.
Eppure Roma ha adottato il numero programmato soltanto da pochissimo tempo.
Da noi il numero programmato è stato adottato da due anni a questa parte. Lo scopo è quello di formare adeguatamente gli iscritti, fissando il tetto delle immatricolazioni anche in base a stime sull’andamento del mercato del lavoro nazionale e regionale, e infine basandosi sul monitoraggio della collocazione professionale dei nostri laureati. Soltanto in quest’ottica si può formare una leva di laureati preparati, in grado di trovare terreno fertile per spendere la loro professionalità.
Ritiene che sia opportuno generalizzare il numero programmato a livello nazionale?
Attualmente, a livello nazionale, non è ancora arrivato il vero grosso impatto dei laureati dei corsi avviati. A breve, quando ciò accadrà, gli esiti saranno molto gravi perché l’esubero e la scarsa preparazione creeranno di certo grossi problemi che si ripercuoteranno negativamente pure sui futuri laureati del numero chiuso.
Ritengo che il numero programmato si dovrebbe applicare assolutamente a tutti i corsi di laurea. Pensando al caso dell’Università di Catania, credo sia molto poco proficuo avere diversi corsi in SdC, con una tale affluenza e in un mercato complesso come il vostro. Lo stesso, se non erro, sta accadendo a Messina e a Reggio Calabria. Accettabile sarebbe la presenza di corsi altamente diversificati e soprattutto a numero programmato. Ma se ciò non succede le conseguenze potrebbero essere molto gravi, a cominciare dalla mancanza di lauree specialistiche adeguate, per non parlare dell’assenza di sbocchi lavorativi.
Preciso inoltre una cosa scontata: per attivare un corso di comunicazione è necessario che ci sia un corpo docente che faccia comunicazione da anni. Non si può reggere un corso di laurea con soli professori a contratto. Spesso ci si trova dinnanzi a corsi in cui gli insegnanti sono assolutamente impreparati, incapaci di trasmettere nozioni che neanche padroneggiano. Tutto ciò viene aggravato dalla mancanza di rilevazioni fatte sul tessuto produttivo regionale e provinciale. Vorrei vedere cosa si risponderà ai laureati in cerca del primo impiego o di una specializzazione di qualità sul territorio d’origine. In alcuni casi è mancato il buon senso!
Come si muove e che contatti ha la sua facoltà per quanto riguarda gli stage?
Questo è un grosso problema. So per certo che molti dei nostri studenti si lamentano per la scarsità dei tirocini, nonostante si disponga di una commissione stage molto efficiente. Recentemente abbiamo preso accordi con Telecom e Rai che hanno restituito un feedback molto positivo alle nostre offerte. Ciononostante resta un malcontento che forse rispecchia da un lato la nostra incapacità nel comunicare gli sforzi che facciamo quotidianamente, ma dall’altro anche l’incapacità da parte dei giovani di accettare quello che offre un’università dissestata come quella italiana. Attenzione, non dico che bisognerebbe accontentarsi! Ma a noi è spesso capitato di dover lasciare vacanti posti per stage provocati addirittura da carenze d’organico, per l’impossibilità di trovare studenti disposti a trasferimenti o ad altri tipi di sacrifici. Se l’avessero proposto a me uno stage in una redazione giornalistica sarei partito immediatamente! Anche se la qualità e l’entusiasmo che si riscontra nelle nuove leve è veramente eccezionale credo che, oltre che figli del benessere, purtroppo i nostri studenti sono figli di una concezione dei diritti e dei doveri poco equilibrata. A conferma di questa distorsione rileviamo che tutti gli specializzandi provenienti da altre sedi valutano molto positivamente la nostra offerta formativa, che è innegabilmente molto vasta e ben radicata nel territorio.
Qual è il suo giudizio sulla politica del governo per l’università?
Beh, credo che il periodo di crisi durerà ancora ben oltre la nuova legislatura. Riforme in grado di aiutare le Università a risollevarsi richiederanno un certo tempo di attuazione. In questi cinque anni la situazione si è andata aggravando, ma dobbiamo ammettere che anche prima nulla di particolarmente buono era stato fatto.
Come vede le prospettive del mercato del lavoro?
Inutile ribadirne la complessità. Tuttavia l’osservatorio costituito dalla nostra facoltà e diretto da nostri laureati sta dando esiti interessanti: risulta una risposta positiva sia da parte degli enti pubblici che privati. Il problema a volte sta nell’incapacità dell’Università d’innovarsi a causa dello stato in cui versa, ma capita anche che siano le aziende a non riuscire ad adattarsi ai mutamenti. L’ambiente della comunicazione è molto più complesso e in un certo senso assai “meno concreto” di quello scientifico, quindi la diretta collaborazione tra aziende e università risulta più difficile che negli altri settori.
Allora che fare per garantire i laureati?
Noi, come dicevo, abbiamo istituito un osservatorio che svolge un’azione di monitoraggio sulle condizioni di lavoro dei nostri laureati, tenendo conto del loro percorso formativo, fino a ben cinque anni dopo l’inserimento. I risultati sembrano incoraggianti rispetto alla media. Vi do qualche dato: a un anno dalla laurea il 72% ha trovato un lavoro, a tre anni il 91% a cinque il 95%. Ovviamente non si tratta sempre di un impiego stabile. Però, tornando sulla media nazionale, a cinque anni dalla laurea si ritrova un tasso di occupazione stabile del 72% dei laureati. Come si nota i dati del lavoro atipico, tappa ormai obbligatoria per tutti gli studenti, sono più incoraggianti rispetto ad altre facoltà. Un’altra cosa che distingue i nostri dagli altri laureati è il livello di retribuzione, che se all’inizio si attesta su una media di 922 euro, allo scadere del quinquennio arriva a 1.331 euro; un dato decisamente più in alto rispetto alla media nazionale. La peculiarità dei nostri studenti sta inoltre nella flessibilità e nella capacità di assolvere impieghi non sempre strettamente di comunicazione. Tanto che spesso si sente dire che i nostri laureati sono un po’ “dovunque”, mi pare ovvio che a una preparazione interdisciplinare corrisponda uno sbocco altrettanto vasto.