Per chi pensa che la presenza dell’università diffusa nel territorio meriti un futuro, l’esperienza del decentramento a Ragusa è una lezione su cui meditare. Una decina di anni fa la presenza dell’università nel capoluogo ibleo riguardava solo le facoltà di Agraria e di Lingue. Appena costituitasi come facoltà autonoma, Lingue effettuò una scelta ambiziosa e non priva di rischi: collocare a Ragusa non un duplicato dei corsi tradizionalmente svolti a Catania, ma un settore di studi completamente nuovo. La sede di Ragusa avrebbe avuto “l’esclusiva” di sostenere e qualificare la costruzione di un polo scientifico delle lingue orientali. Si scommetteva sui benefici di una didattica dei piccoli numeri, con la consapevolezza di dover formare il corpo docente da zero e della necessità di attrarre studenti di altre città. Il corso di laurea avrebbe dovuto perciò godere di servizi, qualità della didattica e apertura alla ricerca nettamente superiori alla media.
Questo sogno è finito quasi subito: il progetto imperniato sulle facoltà di Agraria e di Lingue è stato abbandonato con l’istituzione della facoltà di Medicina. E, nonostante il vertiginoso turnover dei presidenti – da Piero Cascone, assertore dell’istituzione di Medicina, a Giuseppe Drago subentratogli nel gennaio 2008 e presto dimissionario per cause di forza maggiore, fino all’attuale presidente in carica dal maggio 2009 – la politica consortile è stata una sola: moltiplicare il più possibile le facoltà.
Così è morta l’esperienza del decentramento universitario a Ragusa. Ricordo le speranze di un collega della facoltà di Agraria, uno di quelli che “ci credevano”. Proprio su Step1 si rivolgeva ai consorzi con parole piene di fiducia: «I consorzi detengono la chiave dell’innovazione nei rapporti Studenti – Università – Territorio. Come? Basterebbe erogare servizi e finanziamenti solo ai corsi di laurea virtuosi, ovvero a quelli che intraprendessero il cammino della valutazione esterna. (…) Indicare, di concerto con i valutatori, una serie di indici di efficienza da rispettare e migliorare continuamente. Insomma, inizierebbe la morte lenta (purtroppo, ma sarebbe pur sempre qualcosa) dell’autoreferenzialità, che è il cancro dell’Università pubblica italiana. (…) Avranno i Consorzi il coraggio di una scelta semplice, dai risultato sicuro? O sono anch’essi figli di una cultura povera e interessata al miglioramento solo a parole?».
Si è avuta prova che “il Territorio” non è così lungimirante. Mentre imprenditori e forze sociali sono rimasti alla finestra, il problema università è diventato affare della politica locale, i consorzi si sono trasformati in apparati del sottogoverno e si è aperta la competizione per essere sede di un nuovo ateneo. Anche per giustificare la propria esistenza, i consorzi hanno fatto a gara per incrementare il numero di corsi di laurea attivati nelle rispettive sedi senza andare troppo per il sottile circa la qualità. Dovunque si è determinata una concorrenza al ribasso che ha penalizzato proprio i corsi più innovativi: la moneta cattiva ha cacciato la moneta buona.
L’università di Catania non è priva di colpe. Si era lasciato credere dappertutto che fosse possibile far “gemmare” qui e là un nuovo ateneo. Sembrava che mantenere in vita questa illusione fosse indispensabile per attingere alle risorse aggiuntive fornite dalle convenzioni, ristorando così le casse dissanguate delle varie facoltà per garantire il reclutamento di nuovi docenti e soprattutto le promozioni di carriera. Nacque così il fenomeno del “docente decentrato”, vale a dire di ruolo nell’università madre ma “inquadrato” nella sede periferica (la copertura dello stipendio era attribuita ai fondi dovuti dai consorzi o direttamente dagli enti locali). In tal modo poté sorgere una moltitudine di corsi di laurea affidati a una piccola quota di “docenti decentrati”, molti dei quali si dividevano tra la sede centrale e quella periferica, con la sostanziosa aggiunta di docenti a contratto retribuiti in maniera quasi simbolica. Grazie all’ubiquità e alla volatilità del corpo docente, l’ingegnoso meccanismo ha rivelato una straordinaria capacità espansiva e ha consentito di “aprire” corsi di laurea a bassissimo costo.
La grande corsa al decentramento è durata finché tutti continuavano a progettare e ad accettare nuovi corsi di laurea come se fossero oro puro, un capitale da spendere per la futura promozione ad ateneo indipendente. Ma l’inflazione non poteva reggere a lungo. In seguito alla straordinaria moltiplicazione dei corsi di laurea, i consorzi non riuscivano più ad assumersi neppure il modesto onere delle convenzioni. Il problema è stato risolto nella maniera più semplice: smettendo di pagare. D’altra parte iniziava a delinearsi l’applicazione del DM 270, che imponeva il “requisito necessario” di un determinato numero di docenti di ruolo per l’accreditamento dei corsi. Così la “bolla speculativa” è improvvisamente scoppiata.
Con l’elezione del nuovo rettore l’Ateneo cominciò ad allarmarsi per il mancato pagamento di quanto dovuto dai consorzi universitari e, dopo anni di noncuranza, pretese il rispetto delle convenzioni. Nel caso di Ragusa ciò provocò un “accordo con transazione” che spinse l’università di Catania a rinunciare a una consistente quota del proprio credito in cambio del pagamento di una parte delle spettanze. Il consorzio universitario di Ragusa, da parte sua, iniziò a tagliare quanto più poteva sugli investimenti per la didattica, le borse di studio, le strutture indispensabili per la ricerca. Si arrivò persino a mettere in forse il funzionamento dell’unica biblioteca al servizio della facoltà di Lingue. La sola preoccupazione era ormai quella di mantenere attivi il maggior numero possibile di corsi di laurea al minor costo possibile, a scapito della qualità delle strutture e dei servizi per gli studenti.
Si è affacciato a questo punto il progetto del quarto polo, la classica soluzione all’italiana. Dovrebbe trattarsi – si è detto – di un “ateneo diffuso”, capace di accontentare tutti: Enna, Ragusa e Siracusa.
Ma è assai significativo che lo “studio di fattibilità” tralasci completamente la questione del numero dei docenti disponibili. Dove sono e dove vanno i professori? I “docenti decentrati” si sono sempre considerati, a giusto titolo, ricercatori o professori dell’università madre, il luogo quasi esclusivo delle attività di ricerca e il centro delle filiere accademiche. Nonostante l’impegno didattico presso la sede distaccata, per questi docenti è stato sempre fuori discussione mantenere un collegamento con la sede centrale dell’ateneo. Così, quando gli amministratori dei consorzi hanno sostituito le promesse di sviluppo con lo sfacciato “non pago” e i fondi per gli avanzamenti di carriera si sono volatilizzati, la naturale propensione al rientro si è trasformata in fuga. L’amministrazione dell’ateneo si è vista allora costretta a garantire il rientro dei “decentrati”, socializzando le perdite provocate dalle singole facoltà.
Lo “studio di fattibilità” del quarto polo, firmato dal professor Alessandro Schiesaro, è un documento piuttosto scarno. Nella parte statistica esso si limita a conteggiare il numero di studenti iscritti e non fa nessun cenno ai docenti. Anche sul sito web dell’Università Kore si sorvola sul dettaglio del corpo docente di ruolo. Per scoprirlo è indispensabile consultare il database del Cineca.
I corsi di laurea della Kore con un discreto numero di iscritti sono tre: “Giurisprudenza” (820 studenti), “Scienze delle attività motorie e sportive” (582) e “Scienze e tecniche psicologiche” (841). Benché figurino ben 6 facoltà, il totale dei professori ordinari dell’intero ateneo è pari a 7, affiancati da 12 associati non confermati: un ordinario a facoltà, oltre al rettore. All’obiezione «Come fate a far funzionare un ateneo con un solo ordinario a facoltà?», la risposta è facilmente intuibile. E’ la stessa che ha fornito il presidente del consorzio universitario ibleo a chi gli chiedeva come potrà funzionare una Facoltà di Lingue a Ragusa: «Faremo i concorsi!». Già, i concorsi… ma esiste una pianificazione? E chi potrà garantire i fondi?
Avete mai visto funzionare un ospedale senza medici? O una compagnia aerea senza piloti? O una catena di ristoranti senza cuochi? Sarebbe senza senso! E non occorrono leggi per impedirlo, perché tutti sanno che accudire malati ci vogliono medici e infermieri, per far volare un jet è indispensabile l’equipaggio, per mangiare decentemente è necessaria un po’ di gente in cucina, a meno di accontentarsi di cibi in scatola e surgelati precotti. Eppure nell’istituendo “quarto polo” sta andando in scena proprio questa trama da teatro dell’assurdo: facoltà senza professori. A scriverla non sono geni creativi come Samuel Beckett, Eugène Ionesco e Alfred Jarry; ma un esperto di fiducia del Ministro Gelmini.
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