Paola MONZINI
Il mercato delle donne
Saggi. Storia e scienze sociali
Quante parole per il mercato del sesso. Alcune ingiuriose già soltanto nel suono, altre venate di un romanticismo di maniera, quando non pesantemente ironiche: prostitute, squillo, lucciole, ora anche l’esotico «escort». Al vasto assortimento di termini per designare chi si guadagna da vivere fornendo ad altri il proprio corpo, fa da contrappasso la perenne ambiguità dell’atteggiamento verso il mondo dell’amore mercenario: per un verso è considerato un fenomeno inevitabile, di cui mai si è potuto né mai si potrà fare a meno, ma per l’altro tutti o quasi concordano sulla necessità di «emarginarlo» in qualche modo, come se il fatto di esercitarlo e usufruirne lontano dagli occhi garantisse una sorta di immunità sociale al resto del mondo.
Questa clandestinità ideologica cui la prostituzione è relegata, accomuna viali di periferia e centri estetici di quartieri signorili.
«Non avevamo notato niente di strano», hanno di recente commentato gli storditi coinquilini dell’ovattato Viva Lain di Torino. Ignari della natura di quel viavai per le scale, i candidi vicini hanno in fondo rilasciato alla stampa una grande verità: niente di strano.
Che la prostituzione non sia niente di strano lo spiega Paola Monzini nel suo libro Il mercato delle donne. Prostituzione, tratta e sfruttamento, in uscita per l’editore Donzelli: un saggio sul mercato del sesso in Italia e nel mondo, frutto di un lavoro durato tre anni presso l’Unicri, l’istituto di ricerca delle Nazioni Unite che studia la criminalità e la giustizia. Senza pregiudizi o paternalismi, Paola Monzini racconta quel che sta dietro ai nostri marciapiedi, le case chiuse non riconosciute per tali, i call center per prestazioni erotiche. Quanto all’inevitabilità di questa componente nel tessuto di ogni società, l’autrice sgombra il campo da equivoci di sorta: la richiesta di sesso a pagamento, in larghissima maggioranza da parte maschile, non risponde a una necessità biologica. Non è il riflesso, insomma, di un diverso richiamo dell’istinto per gli uni e le altre: gli uomini non hanno più bisogno delle donne di sfogare i propri istinti.
Piuttosto, con le prostitute li sfogano in modo diverso, ricuperando magari quell’antico ruolo di predominanza che la rivoluzione femminista ha spazzato via: «Quello che mi piaceva di più era l’aspetto maschilista della cosa: lo scegliere senza essere rifiutato, al di là del gesto atletico fine a se stesso, che tutto sommato non riveste grande importanza nel rito», dichiara un quarantenne, e un altro, laureato, dirigente, «frequento queste ragazze perché vi sono stato sospinto dal femminismo imperante, che ha scardinato i rapporti tradizionali tra maschio e femmina, tanto da farmi preferire una semplice trattativa economica a sul costo della prestazione, piuttosto che infilarmi in rapporti troppo cerebrali che inibiscono la sessualità, oppure troppo fisici che evidenziano i miei grandi limiti di maschio.».
«Queste ragazze» sono le rumene e le nigeriane, le albanesi e le cinesi che «battono» in tutta Italia, lungo le strade di campagna e dietro le cabine dei massaggi. Lo studio di Paola Monzini mette in luce le complesse dinamiche in gioco fra la prostituzione e immigrazione delle donne. In altre parole, la «tratta»: nome non nuovo per questo fenomeno, come svela per sommi capi l’antica vicenda sul commercio di donne bianche fra Occidente e Oriente: anche in questo caso, dietro le lusinghe di harem e dorate segregazioni, si celava soltanto sfruttamento. Il flusso migrante sulle vie del sesso si snoda su due direttive principali: l’Europa dell’Est e la Nigeria.
Nel primo caso si ha a che fare veramente con un mercato globale dai traffici complessi e multietnici: «L’ottima reputazione di cui godono i russi nel mondo criminale consente loro di stringere accordi con le più potenti organizzazioni criminali: con la yakuza giapponese, con i gruppi dell’area balcanica e della Turchia e di articolarsi con facilità sulle lunghe distanze ». Più autarchico è invece il sistema nigeriano gestito quasi esclusivamente da donne, sia in patria sia all’estero. Gli uomini
sono tutt’al più autisti o guardaspalle.
Il caso della Nigeria è a suo modo esemplare, innanzitutto per l’impatto economico che questa migrazione ha ormai sul paese.
Vi sono intere zone di Benin City, che stanno cambiando aspetto: con i soldi portati dalle donne, gli edifici fatiscenti lasciano spazio a nuove costruzioni, e le sorti economiche di intere famiglie allargate si capovolgono. «Queste persone hanno aiutato questo paese a crescere», afferma un rappresentante della locale autorità religiosa – un vero e proprio riconoscimento nazionale per la fatica di queste donne. Che se, nella maggior parte dei casi, partono per l’Occidente nella
consapevolezza di ciò che andranno a fare e considerano questo passo professionale come la via obbligata verso un’emancipazione sociale ed economica altrimenti irraggiungibile, d’altro canto non immaginano a quale catena di ricatti, debiti di riconoscenza dagli interessi vertiginosi, e violenze fisiche andranno incontro.
Di contro all’oleografia delle «donne perdute» Paola Monzini offre un quadro più disincantato e purtroppo credibile.
L’ingiustizia e la violenza non sono certo più tollerabili, entro uno schema in cui le donne sempre più spesso sanno che mestiere andranno a esercitare, a destinazione. Di fronte a tutto questo, il mondo civile, che sia Italia o altrove, dovrebbe trovare il coraggio di far piazza pulita della questione morale e provare a cercare invece delle soluzioni «sostenibili», benché eticamente provvisorie. Gridare allo scandalo dilagante è un po’ come nascondersi dietro un filo d’erba.
LA STAMPA, 21/7/2002
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