Nel centro di accoglienza capita spesso di incontrare i migranti in ciabatte. Perché? Se lo è chiesto la nostra blogger che lavora nel Cara come interprete. Una questione pratica ma anche psicologica, perché entra in gioco l'identità di ogni singolo individuo
Il gioco di ruoli nel Cara di Mineo «Noi riconoscenti, loro prepotenti»
Ho pensato in questi giorni al perché al Cara di Mineo molti girano per strada in ciabatte, e ho trovato due motivazioni plausibili.
Una è di tipo pratico: poiché in oriente non si entra in casa con le scarpe, e poi ci si scoccia a rimetterle per andare al negozio vicino casa. Laltra è di tipo psicologico: si tratta di identità e di perdere o meno la faccia. E ve lo spiego ricollegandomi a una cosa che mi disse il mio amico Reza che risiedeva al Cara di Mineo.
Di fronte allimmotivata aggressività con cui gli parlava un poliziotto mi disse: «Queste persone pensano che noi siamo sempre stati disperati, pensano che non abbiamo famiglia, che non abbiamo mai lavorato, pensano che non capiamo cosa significhi essere rispettati. Che ne sanno di quanto mi viziava la mia famiglia? Che ne sanno di chi e che cosa ero io? È un gioco di ruoli, loro fanno i padroni prepotenti, noi facciamo i poverini riconoscenti».
Ecco, io credo si tratti proprio di questo: escono in ciabatte perché qui, nei Cara, per strada, non hanno identità, non sono nessuno, nessuno è disposto a riconoscere la loro storia, il loro passato. Eri un ingegnere elettronico? Chi se ne frega, qui sei un ospite non gradito, fai parte della più bassa manovalanza e le persone ti parlano usando i verbi allinfinito come se stessero parlando con un idiota. I migranti non hanno paura di perdere la faccia, perché nel momento in cui io vado al Cara per il loro colloquio, la faccia lhanno già persa mille volte e hanno sopportato cose che nessuno di noi pensa di poter sopportare.
Pensiamo di avere il totale controllo sulla vita, sul roozegar. Pensiamo che se studiamo, ci laureiamo, troviamo un buon lavoro, la vita ci sorriderà sempre e noi sorrideremo alla vita sempre di più. Non mettiamo minimamente in conto che qualcosa di imprevedibile potrebbe succedere anche a noi e al nostro paese. Fortress Europe è un nome perfetto per descriverci. Crediamo di vivere in una fortezza immune da pericoli, epidemie, carestie, povertà e catastrofi. Come se lEuropa non fosse un luogo geografico come gli altri nel mondo, sicuri del fatto che la ricchezza delle nostre banche corrisponda ad una ricchezza geografica e ambientale. Le assicurazioni sulla vita fatte in agenzia ci danno un senso di onnipotenza, che difficilmente ci permette di avere una prospettiva lucida sulla vita.
Un giorno ero in Commissione con un membro dellUnhcr, e le dissi: «Ci pensi mai che un giorno potresti esserci tu da questa parte del tavolo a fare richiesta di protezione internazionale, e un commissario starebbe seduto dallaltra parte ad ascoltarti e a decidere della tua vita dopo due ore di colloquio? Potresti avere un interprete che capisce A invece che B e la sera dovresti dormire nel silenzio assordante del Cara. Ci pensi?».
[Foto di Antonello Mangano]