Il figlio sospeso, la maternità surrogata vista da un uomo Regista: «Ha il diritto di essere amato dal concepimento»

La verità ci rende liberi. Si può riassumere in questa frase evangelica l’essenza e il motore del film Il figlio sospeso, secondo lungometraggio del regista palermitano Egidio Termine, nei cinema siciliani da giovedì 23 novembre. L’opera – che verrà proiettata al multisala Politeama di Palermo, al cinema Mezzano di Porto Empedocle e alla sala Paradiso di Catania – affronta un tema delicato per il mondo femminile ma non solo, quello degli uteri in affitto e della maternità surrogata, trattato con particolare sensibilità da un uomo che non pretende di entrare nel merito di questioni bioetiche o legali, ma restituisce al pubblico il dilemma di un figlio che intraprende un viaggio alla scoperta delle sue origini e della propria identità, attraverso la conoscenza della verità negatagli fin dall’infanzia.

«Nel racconto ci sono i due punti di vista delle madri che si accavallano, ma il protagonista è il figlio e l’attenzione è posta su di lui – spiega a MeridioNews il regista del film prodotto dalla Mediterranea Productions e dall’associazione Star con il sostegno di Sicilia Film Commission, evento speciale al Taormina Film Fest 2016 e al BIF&ST di Bari -. Ho sempre detto che quello della maternità surrogata è un argomento che divide a seconda di quante sono le madri coinvolte, ma il padre è e resta solo uno». Così Termine smentisce l’antico detto Mater semper certa est, pater numquam, a favore di un nuovo concetto di umanesimo, dove tutto è capovolto e si tenta di rielaborare l’antropologia umana, con un padre che, conosciuto o non conosciuto, diventa l’unica cosa certa.

Quello del protagonista Lauro, però, è scomparso prematuramente, costringendo il figlio a mettersi in marcia contro tutto e tutti per raggiungere il suo obiettivo, scontrandosi con i conflitti intrapersonali e interpersonali, inseguendo una verità che alla fine verrà a galla. Proprio come un eroe della letteratura che prende spunto dalle favole di Dickens, anche se in realtà è fragile e volitivo. «La verità sulle proprie origini ci dà la forza e la maturità per essere uomini – sottolinea il regista -. Ma non è solo questo. La verità può essere amara, come appare all’inizio, ma anche dolce, perché dopo tutto sa di essere stato amato e voluto da tutti e tre i genitori». Ed è questo che gli dà forza, come sostiene anche Winnicott, il padre della psicologia infantile a cui Termine si è ispirato e secondo cui se un bambino sin dal grembo materno è amato e desiderato avrà una forte personalità e sarà vero e libero dalle proprie schiavitù.

«Il motore di tutto poteva anche essere un’adozione, la cosa importante per me era stabilire che qualunque sia la modalità di concepimento del bambino il figlio ha il diritto di essere amato e accolto fin dal concepimento, perché diversamente viene privato di una forza fondamentale per lo sviluppo armonico della sua personalità. Sono convinto – aggiunge – che un autore scrive sempre qualcosa che gli appartiene, che deve esorcizzare, che gli serve come momento catartico di qualcosa che sta succedendo nella sua vita. Anche io ho vissuto momenti in cui mi sono sentito accolto e altri in cui sono stato rifiutato e la mia necessità intima era quella di suggerire che bisogna guardare sempre positivamente ai momenti in cui ci hanno amato, perché sono quelli che creano la libertà interiore necessaria per andare avanti».

Protagonista assoluto Paolo Briguglia, che interpreta sia il padre che il figlio, per accentuare la somiglianza somatica. «I personaggi sono completamente diversi e lui li interpreta entrambi in maniera magistrale, perché ha un volto che si presta sia alla parte di ragazzino che di adulto, così come l’atteggiamento interiore», continua Termine. Nei panni delle mamme, invece, Gioia Spaziani e Aglaia Mora. «Di solito quando ci sono due protagoniste femminili si tenta di sceglierle diverse anche fisicamente. Qui invece, per accentuare la parentela di maternità, le ho volute diverse ma simili al contempo», chiarisce il regista. Che vuole concludere con una metafora: «Quando l’essere umano guida un’automobile ha uno specchietto retrovisore, piccolino ma indispensabile per sapere chi ha dietro e che rappresenta il passato, e un parabrezza davanti, che rappresenta il futuro. L’uno serve all’altro ma bisogna sempre andare avanti, guardando il passato senza rimanerci ingabbiato».


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