Il dovere dell’accoglienza: dalla Bibbia alla Costituzione

Al Centro diurno per anziani di Ragusa fervono i preparativi per una partenza. La meta è l’Europa, o meglio, l’Europa delle istituzioni, e, nello specifico, Bruxelles. Tra spillette (‘Elezioni europee-usa il tuo voto’) e fumetti che spiegano ai nipotini come ai nonni il funzionamento del Parlamento Europeo, c’è spazio anche per discutere di immigrazione.

A guidare la riflessione del 22 maggio l’aiuto di Domenico Leggio, direttore della Caritas Diocesana, Vincenzo La Monica, referente del settore immigrazione per le Caritas di Sicilia e Cornelia Fohr, immigrata romena in Italia.

Domenico Leggio ci introduce brevemente ad un percorso che, partendo, a scelta, dalla Bibbia o dalla nostra Costituzione, o magari da tutte e due insieme, ci porta alla stessa meta: il dovere dell’accoglienza verso chi fugge da pericoli di vita, che, è proprio il caso di dirlo, è sacrosanto. Dovere, però, che non può essere limitato ad una prima accoglienza, ma deve piuttosto essere fondato sull’accoglienza della persona, e sulla creazione di relazioni con la sua dimensione umana e affettiva, anche perché è necessario rendersi conto che l’immigrazione è un fenomeno inarrestabile: da quando esiste l’umanità ci sono interi popoli che si spostano, spesso, e accade anche oggi, per sfuggire da guerre o persecuzioni. E’ quindi tempo che le nostre città si dotino, anche dal punto di vista strettamente urbanistico, di spazi di conoscenza e aggregazione sociale, in modo da scongiurare il pericolo di guardare allo straniero come ad un criminale patentato, venuto in Italia esclusivamente con intenti malefici.

Come in tanti altri contesti, anche parlando di immigrazione le parole hanno un peso per cui noi, però, a volte non abbiamo bilance adatte. E’ Vincenzo La Monica a fornire adeguate unità di misura linguistiche che possono metterci in guardia anche contro alcune distorsioni della stampa e ad accennare le procedure per la richiesta di asilo. Così, se migrante è ogni persona che lascia volontariamente il proprio paese per stabilirsi, temporaneamente o definitivamente, in un altro paese, si capisce bene la differenza rispetto a extracomunitario, che per la connotazione vagamente spregiativa che ha assunto dovrebbe essere evitato nelle discussioni quotidiane, riservandone l’uso agli ambiti più strettamente giuridici. In questo modo eviteremmo anche di mostrarci ignoranti in materia di Unione Europea (in questi giorni, proprio non si dovrebbe!) e definire extracomunitario un cittadino romeno.

Chi è il clandestino, invece? In ambito internazionale è definito Non-documented o Undocumented Migrant Worker; in italiano, quindi, meglio chiamarlo irregolare. Si tratta di persone non autorizzate ad entrare, soggiornare o lavorare in un paese secondo la legislazione di tale paese. Si vede così la differenza rispetto alla condizione dei richiedenti asilo: qualsiasi migrante può fare richiesta di asilo, e deve farlo nel primo paese in cui arriva. I richiedenti asilo, inoltre, non possono essere respinti neanche quando si trovano in acque internazionali: su questo, l’Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees) è molto chiara, a differenza dell’Unione Europea e dei singoli paesi europei, che ancora in molti casi mancano di una legislazione organica riguardo i fenomeni migratori. Se è vero che le richieste di asilo possono essere presentate da tutti i migranti che giungono su suolo italiano, è normale che non tutte vengano poi accettate. Di accogliere o respingere le richieste di asilo sono incaricate delle commissioni che decidono quindi se concedere lo status di rifugiato, negarlo in toto oppure concedere lo status di rifugiato con protezione internazionale, una sorta di valore intermedio.

Se ovviamente nessuno ha la soluzione a tutti i problemi che riguardano i fenomeni migratori, bisogna allora che tutti noi in quanto cittadini contribuiamo a inventare politiche di integrazione quotidiana. Da dove partire per lavorare ad una integrazione interculturale, che non segua né il modello inglese del multiculturalismo (che rischia di rivelarsi semplice giustapposizione di culture), né quello francese dell’assimilazione (in cui le differenze vengono semplicemente disciolte) ed eviti anche il meticciato, se considerato come fondato su differenze biologiche o meramente folkloristiche? Per La Monica è di capitale importanza lavorare sulle differenze. In primo luogo, riconoscere che esistono. Ammettere che alcune differenze possono risultare spiacevoli, ma che altre possono essere positive. Accettarle tutte ed essere creativi nel trovare strategie che permettano a tutti di viverle serenamente.

Valentina Burrafato

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