“Il Divo” tra Eduardo e Strehler

Avere l’occasione di ascoltare un personaggio come Toni Servillo, di fargli delle domande e di conversare con lui, sicuramente, non ha prezzo. Eppure, a Doppia Scena, ciclo organizzato dal Teatro Stabile di Catania e dalla Facoltà di Lettere e Filosofia, mercoledì scorso, non c’era quasi nessuno a causa della pioggia battente. Nonostante l’uditorio ridotto, l’incontro si è svolto ugualmente, presentato dal professore e regista Ezio Donato.

Intervistato da Rosario Castelli, docente della Facoltà di Lettere, Toni Servillo ha partecipato ad una lezione di letteratura e teatro su Goldoni, autore della “Trilogia della villeggiatura”, spettacolo in scena al teatro Stabile di Catania e del quale “Il Divo” è regista ed attore.

«Mi sono guadagnato sul campo questa coproduzione col Piccolo Teatro di Milano», ha raccontato Servillo, «perché per molto tempo ho lavorato con loro cercando di fare il meglio che potessi. La “Trilogia” di Goldoni è un pezzo importante della storia del Piccolo, per via della riduzione che ne ha fatto Strehler e dalla quale io sono partito, apportando alcune piccole modifiche. Il linguaggio che ho scelto io è di più facile comprensione, e il personaggio di Giacinta non è più una vittima, bensì è ritratta in maniera più cupa, corresponsabile del suo destino. Secondo Eduardo, “la tradizione è la vita che continua”, quindi il teatro di Goldoni è estremamente attuale: ci sono i sentimenti, ma anche gli interessi, il dramma borghese e la situazione economica di oggi».

E starebbe proprio in questo la classicità di Goldoni, secondo Castelli, «nell’essere sempre contemporaneo, descrivendo l’umanità per com’è». Del resto, ha ricordato Servillo, «Eduardo diceva che il teatro è la massima realtà nella massima finzione».

Recitare è un lavoro che necessita di tempo, energia e passione: «Per preparare la trilogia ci abbiamo messo tre mesi, nonostante il lavoro di Strehler, prima del mio, sia stato una base solidissima sulla quale appoggiarsi. Ritengo che per fare un teatro d’arte serio ci sia sempre bisogno di almeno quaranta giorni, non di meno».

Tempi che servono per pesare bene il testo, capire quello che si può o non si può tagliare, decidere i tempi della recitazione che, nel caso della trilogia goldoniana, sono estremamente veloci all’inizio e si dilatano in seguito, compatibilmente con la profondità via via più accentuata dei contenuti.

«Tutto il lavoro che ci sta dietro rende l’idea di quanto sia difficile, il teatro», ha spiegato Servillo.

Il cinema, poi, è un’altra cosa: «Ogni attore, se può, dovrebbe coltivare due diverse maniere di esprimersi: quella teatrale e quella cinematografica. Non ci si possono permettere snobismi. Il teatro, però, ha fottuto la mia vita, l’ha accompagnata e continua ad accompagnarla. Reciti ogni sera, i tempi sono stretti, il pubblico ce l’hai davanti, lo senti, lo vedi, ti stanchi. Non vai in scena solo se sei un cadavere, altrimenti sali sul palco e fai il tuo spettacolo, e la tua vita intera è scandita dalle repliche o dalle prove».

Ma c’è da fare un distinguo fondamentale, perché «ci sono buffoni e mignotte che affollano i palcoscenici e poi dicono “io? Recito”. Mentono. Per un vero attore, il teatro non è un posto che dà visibilità. Il teatro è il luogo della riflessione quotidiana».

E questo, forse, è un pensiero da approfondire.

Luisa Santangelo

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