Il cinema tra realtà e fiction

Il testo di Federica Zanon

 

Presentato in veste di documentario, “Zelig”, ideato, intepretato e diretto da Woody Allen, è in realtà una storia di fantasia, storia di un uomo fantastico in quanto camaleontico.

E questa sua peculiarità, questo cambiar fattezze a seconda del contesto in cui si trova, ci viene raccontata con un ritmo incalzante e trascinante, fatto di video, foto e immagini, ricostruzioni di articoli di giornale (numerosi), che si susseguono e quasi si accavallano l’uno sull’altro, supportati da una voce fuori campo che è presente ma non è di troppo.

A differenza, infatti, di quel che poteva accadere in certe sequenze, per esempio in “Fahrenheit 9/11” nella scena della scuola, dove la voce fuori campo era superflua in quanto le immagini parlavano da sé, in “Zelig” Woody Allen ha saputo creare, a mio avviso, una voce narrante capace di accompagnarci piacevolmente lungo il corso della storia.

Sin dalle prime scene, il sapiente utilizzo di tecniche che rendevano le immagini quasi fossero autentiche, l’uso del bianco e nero, lo stile movimentato, una potente colonna sonora e il continuo apparire di articoli di giornale mi hanno fatto pensare a quel “Citizen Kane” che raccontava anch’esso di un uomo straordinario ma con toni molto più cupi e quasi rassegnati. In “Zelig”, invece, è tutto in movimento, tutto cambia a partire dal protagonista, che tenta di trovare se stesso attraverso se stesso, sbagliandosi pure, ma aprendosi infine verso gli altri, e non chiudendosi in sé.

E quest’uomo, questo Zelig, considerato dalla gente alla stregua di un mostro (o di un fenomeno da baraccone, come apprendiamo nel corso del film), riceve da questa una curiosità divertita che fa venire in mente “Freaks”, dove però era il senso di orrore e repulsione a prevalere.

E la sua vita è quasi sempre raccontata da scene video che lo vedono in compagnia della dott.ssa Fletcher, sua analista nonché futura moglie, con un realismo che ricalca certi documentari di vita vissuta quale “Un’ora sola ti vorrei”, profondamente differente però sul piano del contenuto.

Cosa resta dopo la visione? Quella serenità data dal lieto fine, ancora una volta espressa qui, oltre che con le immagini, attraverso una ritmata musichetta che ricorda lo spirito ironico di “Vogliamo anche le rose”.

 

 

Il testo di Viviana Gianchino

 

“Zelig”, un film di Woody Allen e con Woody Allen nel ruolo del protagonista, uscito nel 1983. Ad essere sincera non ne avevo mai sentito parlare e così, per i primi 10 minuti circa, sono caduta nel tranello e con imbarazzo ammetto che credevo di trovarmi davanti a un vero documentario, così come gli stessi titoli di testa volevano farci credere.

Certo, quando il volto di Leonardo Zelig, il protagonista, ha fatto capolino in un bel primo piano, ho notato una certa somiglianza con Allen; ma la prova che fosse tutto un “bluff” l’ho avuta quando l’ho visto seduto su un lettino con il busto e le gambe completamente ruotati al contrario. Mentre fino a quel momento mi stavo appassionando a quello strano caso umano che viveva in America negli anni ’20, dopo ho cominciato a divertirmi trascinata dalle trovate giocose del regista-attore americano. In fondo penso che questo film si possa definire un “gioco” o meglio un “gioco significativo”.

 

Prima di tutto qui Allen gioca con un genere, quello del documentario per l’appunto, costruendo una storia completamente fittizia e dandole la parvenza della realtà grazie ad artifici molto evidenti: il montaggio tipico dei documentari con interviste-testimonianza, filmati e fotografie d’epoca (non so se tutti fittizi) in bianco e nero, la voce fuori campo che narra gli eventi e commenta i documenti, la macchina da presa fissa che vuole solo documentare in modo oggettivo e scientifico, visto anche l’argomento trattato, senza quindi la volontà di innescare meccanismi di immedesimazione nello spettatore.

In realtà i contenuti sono ben più “sentimentali” che scientifici, ed è qui che Allen gioca con i significati celando sotto una storia stramba, assurda e divertente i suoi messaggi.

Al centro della narrazione ha posto un uomo strano e misterioso, psicologicamente instabile che prima vuole nascondere il suo vero modo di essere uomo pensante poi, aiutato, ha il coraggio di mostrarsi ed esprimersi, ma dopo i primi “successi” cade in disgrazia e ricade nella psicosi. Solo che, significativamente, è soltanto da “matto” che viene davvero apprezzato. Così mi sento di dire che al centro di questa parodia, che riguarda sia la forma del documentario che in qualche modo il campo della psicologia, vi sia una affermazione della libertà intellettuale ed artistica (forse in primis dello stesso Allen).

 

Mentre il film di Woody Allen si nutre solo di invenzione, tra tutti quelli che abbiamo visto ce n’è uno che mi ha particolarmente colpita e che si basa, invece, su fatti e persone esclusivamente reali. Si tratta di “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi, che con grazia e delicatezza, in gran parte dovute all’affetto che la lega all’argomento, riesce a montare e a rendere effettivamente godibili anche da un pubblico estraneo alle sue vicende familiari, filmati, fotografie, spezzoni di vita e pensieri appartenenti alla vita della sua famiglia e in particolare dei nonni e della madre.

In poche parole la Marazzi riesce a fare un film, un bel film, appassionante e coinvolgente, ricco di simbologia e spunti per la riflessione. In fondo anche qui si tratta di libertà, di ricerca del benessere interiore, di ribellione a certe convenzioni sentite come soffocanti.

La narrazione è appassionante e mai noiosa. Talvolta mi è sembrata anche inquietante specialmente nell’uso delle immagini che appaiono come flash e che sono forse quelle più ricche di simbologie. Bello anche il “dialogare” delle sequenze che mostra e ricerca uno scambio tra passato e presente.


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