Un articolo, risalente al 1994, indicava l'ex killer come autore dell'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ipotesi poi smentita dai magistrati dell'epoca. A distanza di 24 anni quella pagina de La Sicilia è tornata d'attualità
Il caso Ciancio e «la strategia delle ombre» su Avola Il precedente di Grasso e la linea editoriale a giudizio
«Maurizio Avola dice verità o menzogne?». Il 2 giugno 1994 se lo chiedeva sulla pagine del quotidiano La Sicilia il giornalista Salvatore Pernice. Collaboratore da Messina del giornale diretto da Mario Ciancio Sanfilippo. Il punto interrogativo ruotava tutto intorno alle dichiarazioni di Maurizio Avola, spietato killer della famiglia mafiosa dei Santapaola-Ercolano passato dal lato della giustizia con rivelazioni clamorose. Il quotidiano di via Oderico da Pordenone ne dava ampio risalto attribuendogli un ruolo chiave nel delitto del giornalista Giuseppe Fava e in quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pubblicato a pagina 13 della sezione cronaca, 24 anni dopo quel pezzo e le mai sopite polemiche sono tornate d’attualità nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa a Ciancio, editore ex monopolista dell’informazione siciliana. Avola non è fisicamente presente in aula durante l’udienza in cui è stato convocato ma risponde alle domande da una località protetta, collegato in video conferenza. «Si ricorda di questo articolo?», gli chiede l’avvocato Goffredo D’Antona. Il pentito conferma. «L’ho letto sul giornale ma ero già lontano da Catania».
Ma perché questo pezzo è così importante? Per capirlo bisogna tornare proprio al 1994 quando Avola si pente e le indiscrezioni sulle sue rivelazioni finiscono sulle pagine de La Sicilia. «Ha ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa», scrive l’autore nelle prima parte. Subito dopo ecco i primi dubbi sull’attendibilità: «Di questo Avola non si sa molto. Non si conosce nemmeno se sia affidabile oppure se si tratti di uno di quei pentiti che la mafia vuole infiltrare in blocco per delegittimare i collaboratori di giustizia». Quando Dalla Chiesa viene ucciso in via Carini, a Palermo, è il 3 settembre 1982. All’epoca il pentito etneo ha da poco compiuto 21 anni e, stando al suo racconto, sarebbe stato affiliato come uomo d’onore soltanto nel 1984, cioè due anni dopo l’uccisione di Dalla Chiesa. «È possibile che un picciotto possa essere incaricato di partecipare a quella strage?», continua nella sua disamina Pernice. In realtà in quella pagina de La Sicilia, almeno secondo alcuni magistrati, si sarebbe celato il tentativo, non è chiaro orchestrato da chi, di gettare veleni proprio su Avola. Un presunto discredito che fa saltare dalla sedia i procuratori etnei Amedeo Bertone e Mario Busacca. Su tutte le furie per quelle dichiarazioni sull’omicidio Dalla Chiesa a cui in realtà Avola non aveva mai partecipato. «Un quadro assolutamente confuso e falso», puntualizzavano i togati qualche ora dopo la pubblicazione dell’articolo. Tutto nell’ambito di una «studiata strategia volta a gettare ombre su soggetti che, pur da diversa posizione, contribuiscono a combattere il fenomeno mafioso».
L’indomani dalla pubblicazione la procura etnea convoca una conferenza stampa e a parlare è il procuratore Gabriele Alicata. «Già in passato questo tentativo era stato fatto nei confronti di un altro pentito catanese, attribuendogli false dichiarazioni, alla vigilia dell’ operazione Orsa Maggiore, partita proprio dalle sue testimonianze». La Sicilia però non fu l’unico quotidiano a riportare le dichiarazioni di Avola. Lo stesso articolo del quotidiano etneo troverà spazio anche sulle colonne de Il Giorno, la firma però è di Tony Zermo, corrispondente dalla Sicilia ma anche firma di punta ed editorialista di riferimento del direttore Ciancio. Quest’ultimo quando nel 1997 viene sentito nel processo per l’omicidio di Pippo Fava a precisa domanda del procuratore Bertone su eventuali depistaggi collegati alla linea editoriale risponderà di non leggere la cronaca nera del suo quotidiano. «Nessuno – spiegava – può controllare 70 pagine di giornale, non esiste un direttore al mondo che possa controllare».
I casi strani però non si esauriscono con Avola. Vicenda a parte è quella che riguarda un altro pentito: Luciano Grasso. L’uomo nel luglio 1984, mentre si trova nel carcere di Belluno, chiede di parlare con un magistrato per dire le sue verità su alcuni delitti, tra questi quello del giornalista Fava. Quando l’indomani due procuratori, Giuseppe Torrisi e Giulio Di Natale, vanno in trasferta per mettere tutto a verbale Grasso decide di fare un passo indietro. Sull’edizione de La Sicilia di quella mattina un articolo, firmato da Enzo Asciolla, annuncia i possibili contenuti delle dichiarazioni. In mezzo alle colonne del pezzo c’è anche la foto del pregiudicato e tra le righe il suo indirizzo di residenza, a Catania. Una pratica, quest’ultima, spesso usata all’epoca ma che, forse, poteva essere evitata per chi era in procinto di collaborare con la giustizia. Da questa vicenda nascerà anche un procedimento per violazione del segreto istruttorio, dal quale sia il giornalista che Ciancio usciranno indenni.