Si torna a parlare del famoso caso che appassionò anche Sciascia. La scrittrice Rossana Dongarrà torna ad affrontare le tante ipotesi che si sono succedute. Una storia appassionante, che racconta di una generale disattenzione dovuta anche a un centro storico che solo recentemente è stato rivalutato
Il Caravaggio rubato, un’incuria tutta palermitana «In tanti non hanno mai visto il quadro originale»
È una delle storie più note di Palermo e allo stesso tempo tra le più sconosciute. Il “caso” del Caravaggio scomparso è forse più conosciuto fuori dai confini dal capoluogo siciliano. Eppure la sua è una vicenda emblematica di un’incuria tutta palermitana.
La storia della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi inizia nel lontano 1609, anno in cui l’opera giunge a Palermo. Una recente ricostruzione dei fatti rivela che, molto probabilmente, l’opera non fu dipinta da Caravaggio qui a Palermo, come prima si credeva, ma a Roma. Commissionata dal mercante Fabio Nuti e da lui regalata alla compagnia di San Francesco che aveva sede presso l’oratorio di san Lorenzo. Anni dopo, nel 1699, lo stuccatore Giacomo Serpotta avrebbe costruito intorno al quadro un intero complesso scultoreo.
Un’opera dal passato incerto e dal futuro ancora meno nitido, dato che dopo il furto se ne perdono le tracce. Da quel momento in poi fantasia e testimonianze più o meno attendibili di diversi collaboratori di giustizia si fondono. Leonardo Sciascia, scrivendo Una storia semplice, si ispira proprio alla notizia del furto e racconta di due balordi che arrotolano un tappeto che forse era un quadro. È proprio lo scrittore a scrivere una nota critica al prefetto del tempo sull’incuria palermitana.
In occasione della presentazione del libro Lo strano caso del Caravaggio scomparso di Rossana Dongarrà, tenutasi proprio all’Oratorio di San Lorenzo lo scorso 25 maggio, il redattore capo Ansa Francesco Nuccio, moderatore dell’evento, racconta alcune delle ipotesi sulla fine del quadro: che sia finito nelle mani della cosca Bontade che, non riuscendo a liberarsene, lo avrebbe bruciato; che sia stato posto in una stalla in attesa di trasferimento, ma poi rosicchiato dai topi; o che, infine, come svela l’ultima relazione della commissione parlamentare antimafia, sia arrivato presso il domicilio del boss Gaetano Badalamenti, che avrebbe fatto da mediatore con un mercante d’arte svizzero.
Secondo questa teoria, costruita sulla base della testimonianza del collaboratore di giustizia Gaetano Grado, storico membro della cosca di Santa Maria di Gesù, il quadro sarebbe stato diviso in più parti per essere venduto sul mercato clandestino. Potrebbe esserci ancora una speranza, perciò, di ritrovarlo.
Uno degli elementi più interessanti emersi dalla presentazione del libro, però, riguarda la generale disattenzione che c’era, da parte dell’amministrazione comunale dei tempi, nei confronti del centro storico. La cura dell’Oratorio era infatti affidata all’amministrazione dell’adiacente basilica di san Francesco, la quale aveva preposto a tale compito solamente due custodi.
«Non ho mai visto il quadro originale – dice Rossana Dongarrà, l’autrice del libro – perché da ragazza, con i miei amici, non frequentavo quei quartieri, i nostri genitori ci dicevano di non andarci. Solo dopo essermi trasferita, da adulta, ho capito la bellezza del centro storico. Perché Palermo è una città che amiamo e odiamo, e la malediciamo almeno una volta al giorno, ma dentro ha il sangue».
Dalle sue parole emerge l’idea di un centro storico che, nel 1969, stesso anno della strage di viale Lazio, era stato dimenticato dalla città. Emblema, questo, di un’incuria tutta palermitana, tant’è che come affermato dalla stessa autrice, il presidente dell’amministrazione provinciale dell’epoca, dopo il furto, si ritrovò a dire: «Sono un grande estimatore di Caravaggio, ma non sapevo ce ne fosse uno a Palermo».
Ironia del caso vuole che Caravaggio sia il pittore della luce, ma questa volta nemmeno il suo tratto basterebbe ad evidenziare che quanto più Palermo continuerà a dimenticarsi dei suoi tesori, tanto più gli abitanti perderanno il senso della bellezza – teorizzato da Claudio Fava col film I Cento Passi – e con esso il senso della giustizia e della onestà.