«Ci sono beni confiscati alla mafia trasformati in ruderi irrecuperabili, altri in cui è giusto denunciare le occupazioni abusive da parte delle stesse persone che hanno subito la confisca, ci sono immobili vuoti in cui portare avanti progetti per restituirli alla collettività e, poi, c’è il caso di Pedara: una situazione nuova che non ci aspettavamo di trovare». Matteo Iannitti de I Siciliani Giovani qualche giorno fa è entrato nella casa di via Marconi 107. Quell’appartamento, un tempo della ditta Rizzo Costruzioni Srl – dell’imprenditore Carmelo Rizzo, legato al clan Laudani e morto ammazzato nel 1997 – oggi è abitato da una donna e da suo figlio legittimati da un compromesso di vendita precedente rispetto al provvedimento di confisca.
«Noi ci siamo rifiutati di fare il sopralluogo – racconta a MeridioNews Dario Pruiti di Arci Sicilia – e io ho anche chiesto alla coadiutrice del bene incaricata dall’Agenzia nazionale (Maria La Raffa, ndr) che la nostra decisione venisse verbalizzata. Noi non entriamo in una casa abitata da una famiglia che, per altro, asserisce di averne diritto». Sarà compito della procura adesso stabilire la legittimità. «Noi non siamo ufficiali giudiziari e non chiediamo che quell’immobile venga sgomberato – continua Pruiti – Quello che ci sembra assurdo è che l’Agenzia abbia inserito anche questo appartamento tra i beni confiscati da mettere a bando per l’assegnazione a enti, associazioni o cooperative». Un’azione che, per gli attivisti, farebbe emergere «da una parte, l’inefficienza del sistema dei coadiutori custodi dei beni che spesso non sanno nemmeno dove si trovano o in che condizioni versano e, dall’altra – afferma – il fallimento dell’effettività della legge Rognoni-La Torre».
Una norma che ha dato la possibilità di trasformare un bene simbolo del potere criminale in patrimonio comune. «Anche rispondere all’emergenza abitativa – continuano dalle associazioni – potrebbe essere un modo per restituire alla collettività le proprietà tolte ai mafiosi». In questo caso, si tratta di un nucleo familiare che si è trovato al centro di un corto circuito burocratico. «Il nostro obiettivo – spiega Iannitti – è provare a facilitare l’iter di regolarizzazione all’interno di quell’abitazione della famiglia, che potenzialmente è una vittima secondaria, per fare in modo che non siano più ritenuti occupanti abusivi». Insomma, in certi casi, l’umanità viene prima del codice penale. Tra l’altro, gli attivisti non conoscono il nome di madre e figlio ma, quel che è certo, è che nessuno dei due ha legami con i clan mafiosi o responsabilità nell’iter del sequestro e della confisca. «C’è una differenza sostanziale tra le persone che occupano i beni tolti alla mafia per necessità – argomenta – e i mafiosi che, anche dopo la confisca, continuano a rimanerci con arroganza».
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