«In Sicilia il 70 per cento delle attività del settore della ristorazione ieri ha riaperto, il restante 30 invece ha scelto di tenere ancora le saracinesche abbassate». I conti sono quelli di Dario Pistorio, il presidente regionale della Fipe Confcommercio. Dietro i numeri ci sono scelte di vita e di lavoro che sembrano, in entrambi i casi, tutt’altro che definitive. Chi ha riaperto all’alba della fase 2 dell’emergenza Covid-19, dopo oltre 50 giorni di lockdown, ha fatto una scommessa. Altri hanno scelto la via della prudenza.
«Chi non ha riaperto sta osservando la situazione: è un momento in cui non si conoscono più i clienti perché la quarantena ha modificato le abitudini alimentari delle persone», fa notare Pistorio. Bar, ristoranti e pub «per mentalità e consuetudine sono luoghi di aggregazione, punti di incontro e non – sottolinea a MeridioNews il presidente della Fipe – posti dove ordinare qualcosa da consumare altrove». Ne è convinto Carlo Gradenigo che a Siracusa da quasi nove anni gestisce il pub l’Hmora e che non ha mai fatto asporto né consegne a domicilio. «La socialità è al centro di una attività come la mia», racconta il titolare.
Del resto, se una birra in bottiglia deve essere consumata a casa allora è senza dubbio più conveniente comprarla al supermercato. «Altra questione che mi ha spinto a scegliere di non riaprire subito – spiega Gradenigo – è il senso di responsabilità: c’è il rischio che si creino degli assembramenti fuori dal locale e, se devo pensare a lavorare bene, non posso nel frattempo pensare a fare il vigile urbano». Assumere qualcuno a cui farlo fare, poi, è impensabile. «A questo punto – continua il titolare del pub – abbiamo fatto trenta e facciamo anche trentuno». Insomma, per riaprire si aspetta la fase in cui si potrà consumare all’interno dei locali. «Ovviamente sarà tutto da rifare e dovremmo imparare a contingentarci da soli – dice sorridendo – perché fare un aperitivo in una tavolata da dieci è impensabile».
Chi, pur essendo «in teoria pro-apertura», non ha riaperto è Marcello De Vincenzo, ristoratore messinese che gestisce la pizzeria L’ingrediente. Per giorni ha portato avanti uno sciopero della fame come forma di protesta per il rischio di non riuscire più a rialzare le saracinesche. «Pur volendo aprire, tra affitto, bollette e fornitori partirei con un debito di circa 30mila euro – dice con la calcolatrice alla mano – Senza contare che dovrei anche fare delle spese per rifornire, riassumere, sanificare, modificare il locale per rispettare tutte le misure previste dai decreti». A conti fatti, il gioco non vale la candela. «In tre mesi, riuscirei mai a guadagnare 80mila euro?», domanda De Vincenzo avendo già la risposta.
Anche nel Catanese c’è chi, prima di rimettere in moto in macchinari, attende «tempi migliori». Giuseppe Di Vincenzo da anni gestisce a Bronte l’Antica dolceria che porta il suo cognome e che è stata aperta dal padre nel 1974. «Per riaprire abbiamo deciso di aspettare che le persone possano consumare all’interno. Altrimenti – aggiunge Di Vincenzo – avremmo perso il sussidio economico e lo sgravo sull’affitto, senza certezze sui guadagni». Anche i bar sono tra quei luoghi della socialità penalizzati dalle modalità a distanza previste in questa fase. «Un cliente che entra – continua il titolare – ha il piacere di prendere il caffè al bancone e magari di accompagnarlo con un dolcino». Una pausa, insomma, in cui concedersi un piacere. «Come si fa a pensare che la gente possa permetterselo in un momento in cui molti non hanno nemmeno i soldi per le necessità?».
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