Iblis, parla l’imprenditore Francesco Pesce «Soldi dati all’amico Aiello, non al boss»

«I miei soldi  Vincenzo Aiello erano un favore all’amico d’infanzia, non al boss». L’imprenditore di Motta Sant’Anastasia Francesco Pesce, imputato nel processo ordinario Iblis, non nasconde di aver frequentato per anni il presunto capo provinciale di Cosa Nostra Enzo Aiello. Ma il loro, come spiega alla corte durante il suo esame svolto in queste settimane, era solo un rapporto di amicizia. Condito da continue richieste di estorsione – avanzate per imbarazzo da altri membri dell’organizzazione – a cui nessuno poteva scampare, nemmeno un intimo amico di un capo, e che Pesce racconta con rassegnazione. Nessun accordo, nessun lavoro insieme, nessuna minaccia né protezione: è in nome di quel rapporto che l’imputato rimanda ai magistrati ogni accusa.

«Conosco Vincenzo Aiello da più di 40 anni – racconta – Conoscevo suo padre, la mamma, la sorella Margherita e il fratello Alfio. Frequentavo casa sua, eravamo amici d’infanzia insomma. Siamo stati anche soci fino ai primi anni ’80 e coimputati per associazione mafiosa». Processo in cui Pesce viene assolto, ma decide di non pagare più alcun pizzo, racconta, circa sette milioni di lire al mese fino al 1997. I suoi successivi esborsi alla moglie di Aiello, Teresa, avrebbero un altro significato, secondo la sua linea difensiva. «Durante la detenzione di Aiello, ho continuato ad avere rapporti con la moglie Teresa che, per bisogno, si ridusse a fare umili lavori – continua l’imprenditore – In quell’occasione frequentava casa mia e le diedi una mano con somme di denaro quasi ogni mese, l’acquisto di una macchina e di una casa in Toscana». «Ho anche una lettera, datata 2003-2004, in cui Aiello mi chiede di dare una mano a sua moglie», aggiunge. In tutto, un aiuto da circa 40-50mila euro. Che però sembravano non bastare ad Aiello, registrato in carcere a colloquio con la donna mentre si lamenta della scarsa puntualità di Pesce nei pagamenti.

Eppure, in nome dei loro rapporti, l’imprenditore non sembra dare peso al comportamento dell’amico. Che, ormai scarcerato, lo chiama anche la notte, alle 23.40, per chiedergli di raggiungerlo a casa della suocera. «Lavoravo 14 ore al giorno e a volte avevo tempo solo la sera – spiega Pesce – Avremmo parlato delle solite cose, come uno scambio di consigli su nomi di medici o proposte di lavoro da me sempre rifiutate». Perché l’imprenditore, spiega, tra le sue conoscenze ha anche diversi camici bianchi. Come il sindaco di Motta Sant’Anastasia Angelo Giuffrida, suo socio in diverse aziende, anche tramite figli e parenti. Sia suoi che di Pesce. Tra gli affari comuni, anche il centro medico-estetico Beutymed di piazza Europa, a Catania, poi ceduto ad altri medici. «Angelo Giuffrida lo conosco dall’infanzia – precisa l’imprenditore – Devo necessariamente specificare che le nostre aziende non hanno mai svolto un’attività significativa nel Comune di Motta, pur avendone la possibilità, considerato che Giuffrida è ed è stato sindaco». Allo stesso modo, Pesce nega di aver mai fatto da tramite con Cosa Nostra per avvicina il primo cittadino, come invece raccontato dal collaboratore di giustizia Umberto di Fazio, secondo i magistrati tra gli i vertici dell’organizzazione criminale etnea.

Pesce racconta di aver sempre continuato a subire richieste di estorsione, ma di non aver mai ceduto. «Poteva capitare che chiedessero anche cinquemila euro al mese. Aiello mi diceva sempre “Franco, in caso tu digli che hai difficoltà…”, e io a tutti rispondevo: “Non sono più disposto, ho già subito una carcerazione e ho figli”». Ma i favori all’amico rientravano in un’altra sfera. Come l’assunzione di una certa signora Concetta, «che da subito ci aveva creato un sacco di problemi – racconta Pesce – Spesso ritardava o non veniva e per questo era stata richiamata dai nostri responsabili con la possibilità di essere licenziata. Così lei cominciò a tirare fuori le conoscenze, i “Lei non sa chi sono io, io sono la compagna di un boss”». Quando Pesce viene a saperlo, ne parla subito ad Aiello, che lo porta alla Civita a conoscere Melo Puglisi, ritenuto dai magistrati esponente di spicco dei Santapaola. Puglisi chiede a Pesce di temporeggiare con la situazione lavorativa della signora «e con l’occasione mi chiede la messa a posto (il pizzo imposto alle imprese, ndr), ma questa era una cosa normale che succedeva continuamente».

Mai da parte di Aiello però, anche secondo i racconti del collaboratore di giustizia e presunto ex reggente etneo Santo La Causa. «Una verità sacrosanta – commenta Pesce – Certamente da parte di Aiello c’era nei miei confronti la riconoscenza, quasi l’imbarazzo dovuto a quello che avevo fatto per l’amico, non per il boss». Che però non poteva né proteggerlo né agevolarlo, come spiega l’imprenditore al suo avvocato Tommaso Tamburino. «Da questo rapporto non ho mai tratto nessun vantaggio – conclude l’imprenditore – E’ normale, in quel contesto pagano anche i boss che hanno attività imprenditoriali, s’immagini se potevo essere esentato io perché ero amico di Enzo Aiello».


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