Continua la lunga discussione dell'accusa al processo sulle presunte collusioni mafiose-politico-imprenditoriali nel Catanese. Come per le scorse udienze, all'analisi dei presunti reggenti mafiosi - questa volta Pasquale Oliva e Rosario Di Dio - si accosta quella degli imprenditori ritenuti collusi a vari livelli. Nell'ultimo appuntamento previsto prima della richiesta delle condanne i pm si sono concentrati su Carmelo Finocchiaro e Sandro Monaco - Leggi la cronaca di tutte le udienze
Iblis, le fasi finali della requisitoria dei pm «Nel Calatino comandavano Oliva e Di Dio»
E’ ancora la zona del Calatino al centro della requisitoria dei pm nel processo Iblis. Ma non solo. Dopo aver analizzato le presunte collusioni mafiose-politico-imprenditoriali a Palagonia, questa volta i magistrati hanno dedicato la prima parte dell’udienza a due figure ritenute responsabili di gestire l’intera zona per conto di Cosa nostra catanese: Pasquale Oliva e Rosario Di Dio. A loro, nella lunga discussione dei pm, si sono aggiunti i nomi di due imprenditori: Carmelo Finocchiaro, ritenuto socio di fatto del presunto rappresentante provinciale di Cosa nostra etnea Vincenzo Aiello e Sandro Monaco, nominato anche dal collaboratore Angelo Siino, ex ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra.
Quella che dovrebbe essere l’ultima udienza prima della richiesta delle condanne comincia con l’analisi dell’imputato Carmelo Finocchiaro. Non solo socio di Aiello – sebbene non sulla carta – in alcune aziende, ma «curava anche il rapporto tra gli associati, ad esempio portando dei pizzini», spiega il pm Antonino Fanara. «Presente agli incontri in cui si discutono i problemi interni all’associazione e alle lamentele di Aiello nei confronti degli altri vertici», ad aggravare la posizione dell’imputato agli occhi dei magistrati non sarebbero state le numerose intercettazioni che lo vedono coinvolto.
«Ma il suo interrogatorio perché ha detto delle cose incredibili», continua Fanara. «Conosco Aiello, è vero, ma per me è il geometra Fisichella – diceva Finocchiaro – Abbiamo cominciato a frequentarci perché ci vedevamo da Giovanni Barbagallo (condannato a quasi dieci anni per associazione mafiosa con il rito abbreviato, ndr), dove io stavo facendo dei lavori per una stradina. Poi mi sono accorto che Aiello non si chiamava Fisichella quando dovevo fargli un assegno». Lavori per i quali, sottolineano i pm, non esiste alcuna fattura e che, come dimostrano le intercettazioni, si sarebbero svolti solo la domenica e nelle feste.
Ma Aiello, raccontano i pm, poteva avvalersi di diversi uomini per gestire la zona del Calatino. Su tutti, Pasquale Oliva e Rosario Di Dio. Due presunti capi al pari, legati non soltanto da un rapporto di parentela dovuto al matrimonio tra i figli. Fatto uomo d’onore nel 2007 e scelto dall’allora reggente Santo La Causa il primo; «un comandante, che chiedeva conto e ragione ad Aiello, poteva interferire nelle estorsioni prendendo contatti con gli imprenditori in modo autonomo, potendo contare sugli stessi uomini di Oliva che lui stesso avrebbe avvicinato al clan Santapaola» il secondo. E’ questo il ritratto che i pm tracciano tracciano dei due imputati. Rifiutato da familiari e difese.
Rosario Di Dio, gestore del rifornimento di benzina di famiglia in contrada Cuticchi a Ramacca, ha già subito una condanna per la sua partecipazione al clan Santapaola, ricordano i magistrati. «Appena uscito dal carcere, anziché godersi la sua famiglia riprese subito i contatti, come raccontano diverse intercettazioni e vari collaboratori di giustizia», spiega il pm Agata Santonocito. Al consuocero Pasquale Oliva, responsabile ufficiale della zona per conto di Cosa nostra etnea, sarebbe toccato anche il ruolo di «frenare suo compare», in contrasto con Angelo Santapaola prima e Vincenzo Aiello dopo. Una differenza di vedute poi sanata con gli anni. Sempre a Oliva inoltre, raccontano i collaboratori di giustizia Paolo e Giuseppe Mirabile, spettava anche il compito di gestire la cassa del Calatino: «Il cui 50 per cento veniva diviso tra i responsabili dei diversi gruppi territoriali quasi fosse una società per azioni», continua il magistrato.
Nella lunga requisitoria dei pm, diverse ore sono infine dedicate all’imprenditore di Regalbuto Sandro Monaco. A capo di diverse imprese edili, il primo a parlare della sua figura come di un uomo vicino a Cosa nostra è stato Angelo Siino, il ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra che proprio della sua specialità avrebbe trattato con l’imputato. «Eppure Monaco, come tutti gli imprenditori coinvolti, dice di non sapere che Siino fosse un mafioso, nonostante si trattasse della stessa persona che gli faceva prendere gli appalti», commenta Fanara. «Monaco non era una vittima, ma un amico di Gesualdo La Rocca (uomo d’onore e nipote del boss Francesco La Rocca ndr) – racconta il collaboratore di giustizia Giuliano Chiavetta – Un imprenditore vicino alla famiglia di Caltagirone e non ai catanesi».
Per dimostrarlo, il pentito mostra ai magistrati un foglio con un appunto, contenuto nella carta delle imprese che lui stesso curava: «C’era scritto “Aldo La Rocca ha portato cinque milioni su dieci promessi da parte di Monaco”. Un regalo per i catanesi, anche poco rispetto ai lavori che Monaco faceva, ma era un modo per farci capire di non intrometterci perché era un amico». Un rapporto di cui l’imputato sarebbe stato perfettamente a conoscenza secondo i magistrati. Come dimostrerebbe un’intercettazione in carcere: «I nostri errori li stiamo pagando a caro prezzo», dice Giovanni Barbagallo; «Non sono errori, è il sistema che ti porta a… […] È dieci anni che lavoro, creando tele, rapporti…», risponde Sandro Monaco.
Anticipando la difesa, l’accusa ricorda come i danni subiti nei cantieri delle imprese di Monaco e le rispettive denunce siano precedenti al 2007. L’ultimo caso, un escavatore bruciato nonostante il pagamento della messa a posto. «Questo succedeva prima che arrivasse Aiello a gestire il tutto. Dopo non è successo più nulla», spiega Fanara. Tranne qualche mese fa, quando lo stesso imputato Monaco racconta alla corte una nuova intimidazione. «Ma le imprese non sono più le sue», rispose gelido il pm riferendosi al sequestro.