In attesa domani della sentenza per una delle principali inchieste degli ultimi anni nella provincia etnea, hanno parlato i legali dei 22 imputati: presunti esponenti mafiosi, politici minori e imprenditori. Tutti concordi sulla debolezza dell'impianto accusatorio, ma meno convincenti per quanto riguarda alcune figure imprenditoriali coinvolte
Iblis, le difese dei principali protagonisti «Un processo temuto, ma senza prove»
«Credevamo sarebbe stato difficile difendere i nostri clienti dalle accuse della procura e invece non ci sono prove». Cominciano tutte con la stessa premessa le difese dei principali protagonisti tra i 22 imputati del processo Iblis. Politici minori, esponenti e mafiosi e imprenditori. Tutti in attesa della sentenza di primo grado, prevista per domani, al netto di colpi di scena. «Quando una cosa non è vera, basta ripeterla più volte per farla diventare tale», commenta Marilena Facente, avvocatessa di Enzo Aiello, ritenuto il rappresentante provinciale di Cosa nostra etnea, citando lo scrittore libanese Kahlil Gibran.
Assieme ad Aiello, ad essere accusato di associazione mafiosa è anche Rosario Di Dio, presunto boss di Ramacca, gestore insieme al fratello dell’area di servizio in contrada Cuticchi, «dove i Carabinieri di Palagonia avevano un accordo per i rifornimenti», spiega il legale Carmelo Passanisi. «Un vecchio mafioso così pazzo da organizzare una riunione con sei persone che accompagnano Angelo Santapaola nella sua abitazione (accanto al distributore, ndr) e con la sua famiglia? – continua l’avvocato – È impensabile anche secondo le regole non scritte di Cosa nostra».
Così come impossibile sembra essere il coinvolgimento di un altro imputato, Giuseppe Tomasello, almeno secondo i suoi difensori. «Descritto anche dai pm come persona per bene, docente di informatica, che ha studiato e di cui nessun collaboratore di giustizia ha mai sentito parlare», Tomasello è ex assessore del Comune di Ramacca, considerato il tramite politico con Cosa nostra locale. Di suoi presunti atti amministrativi favorevoli alla criminalità, però, non c’è traccia. «Dispiace che non ci siano stati controlli in Comune per non compromettere le indagini, come ha dichiarato il colonnello dei Ros Lucio Arcidiacono – continua il legale Francesco Strano Tagliareni – ma il Comune di Ramacca era guidato dallo Stato con tre commissari e i suoi atti tutti pubblici su Internet».
Più complicata si conferma invece la posizione della maggior parte degli imprenditori coinvolti. A partire da Mario Scinardo, imprenditore di Capizzi il cui patrimonio è stato da poco oggetto di confisca per 200 milioni di euro. Considerato vicino alla famiglia mafiosa Rampulla, secondo il suo legale Enzo Trantino sarebbe invece vittima dei suoi estorsori. «La cosa strana è che chi paga e chi riceve finiscono in situazione negativa paritaria», commenta. Altrettanto vittima si definisce anche un altro imprenditore, Santo Massimino, accusato di aver aiutato Aiello in diversi lavori e di avergli pagato 15mila euro. «Per me era un geometra distinto e affabile. Gli prestai quei soldi per salvare la vita alla moglie, perché io credetti alla sua necessità», secondo la versione dello stesso imputato. Nel suo caso, i legali fanno leva sulle strettissime maglie del reato di concorso esterno. «Il vero discrimine è il livello di intensità e qualità del contributo dell’imputato, che non può essere un bacio, dare del tu a qualcuno oppure salutare calorosamente».
E Aiello è anche co-protagonista della vicenda processuale di un altro imprenditore, Francesco Pesce. Anche lui accusato dai pm di aver pagato diverse somme di denaro al presunto rappresentante provinciale di Cosa nostra etnea. Un aiuto a un amico in difficoltà, invece, secondo il suo legale Tommaso Tamburino, il risultato di «un rapporto fatto di stima e affetto che risale agli anni ’70». Nonostante gli screzi che si vanno consumando tra i due. «I contatti sono sempre stati più subiti che cercati, nonostante i miei sforzi per allontanare una presenza per me ingombrante (Enzo Aiello, ndr), lontana dai miei principi e della mia vita», racconta l’imputato. Solo uno dei diversi imprenditori del processo che rivendicano la loro vita fatta solo di onesto lavoro, per sé e i tanti dipendenti. Vittime di un sistema mafioso, denunciano dal banco degli imputati, che condividono la stessa domanda rivolta da Massimino alla corte: «Come bisogna essere padri di famiglia in Sicilia?».