Iblis, la difesa di Vincenzo Santapaola I legali: «I pentiti mentono per mangiare»

«Uscirne è già difficile per chi è dentro, ma diventa impossibile per chi dentro non è». Con queste parole Giuseppe Strano Tagliareni, legale di Vincenzo Santapaola, figlio del boss etneo Nitto, spiega il cuore della sua arringa al processo Iblis. Dove Santapaola jr è accusato di essere il capo di Cosa nostra etnea, secondo i magistrati della procura di Catania. «Abitudinario, pochi amici, una moglie di buona famiglia, macchine non di lusso regolarmente denunciate, perseguitato per il suo cognome – rispondono invece i suoi difensori – Nel 2011, quando viene controllato il ristorante della moglie Vincenza Nauta, Santapaola, capo di Cosa nostra a Catania, obiettivo ipersensibile, viene trovato davanti a un barbecue a cucinare». Una difesa lunga quasi sei ore e che mira a smontare soprattutto le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, ex reggente del clan Santapaola, Santo La Causa.

«In questo processo eravamo pronti a subire un’inondazione di elementi e di prove. Ci sono agli atti intercettazioni, pedinamenti, rilevamenti satellitari su alcuni imputati. Ma, per quanto riguarda il nostro assistito, l’indagine è invece molto scarna – continua Strano Tagliareni – Forse ci si rendeva conto fin da allora che contro Santapaola era inutile procedere a indagini?». Incredibili ai legali sembrano anche le risposte del colonnello dei Carabinieri etnei Lucio Arcidiacono, secondo il quale sull’imputato non sono stati eseguiti intercettazioni né pedinamenti per mancanza di forze. «Si trovano i soldi per intercettare ben 1800 conversazioni tra due che lavorano in campagna e poi si sacrifica quello che viene definito il perno di Cosa nostra? Stiamo scherzando?», continua il legale, tenendo per quasi cinque ore un volume di voce più che sostenuto.

A lui spetta il compito di ricostruire la vita giudiziaria di Vincenzo Santapaola. Detenuto a 23 anni in custodia cautelare, ma poi assolto nel processo Orsa maggiore, nel 1998 viene di nuovo arrestato nel procedimento Orione, in cui viene condannato. «Ma perché costretto, come ha spiegato lui stesso in un interrogatorio, ad avvicinarsi a personaggi con cui non aveva rapporti precedenti – spiega l’avvocato – Perché era emerso dal contesto palermitano un progetto di omicidio che aveva anche lui tra gli obiettivi, per spodestare i Santapaola e sostituirli con il clan Mazzei». Escluso il ruolo apicale, la vita di Enzuccio continua con il processo Plutone, dove viene ancora condannato, «seppure la corte d’appello dica che, dalle intercettazioni, non si possa attribuire a Santapaola un ruolo concreto», sottolinea Strano Tagliareni. Che definisce il suo assistito «un fantasma», «il re dei 60 giorni (il periodo di libertà in cui, secondo i racconti di La Causa, avrebbe retto il clan, ndr)», «un generale senza esercito perché nessuno esegue i suoi presunti ordini». «Se fosse stato fiero del suo ruolo, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata presentarsi ai Lo Piccolo di Palermo – incalza il legale – Anche perché i palermitani ci tengono alle regole».

Ma la parte principale dell’arringa – oltre alle precisazioni sullo stato di salute di Santapaola – è concentrata sulla possibilità di smontare i racconti dei collaboratori di giustizia, definiti più volte «delinquenti che spesso vengono a propinarci delle menzogne soltanto per ingraziarsi chi dà loro da mangiare». Soprattutto Santo La Causa, il cui tentativo di demolizione è affidato all’altro legale di Santapaola, Francesco Strano Tagliareni. Che non nasconde «un rapporto professionale e umano con l’assistito, dopo aver seguito anche il padre nel processo Orsa maggiore – racconta – Dopo la prima scarcerazione, gli dissi: “Vattene da Catania perché qui non ti faranno più vivere”. E fui profetico». L’avvocato ripercorre le dichiarazioni del pentito sul presunto ruolo apicale di Vincenzo Santapaola e ribatte punto per punto: dalla richiesta di benedizione per uscire dall’associazione espressa in carcere a Parma da La Causa a Santapaola – «ma quando lui era stato trasferito ad Ascoli Piceno, quindi è una bugia» – alla presunta visita a casa del padre di La Causa, dove il pentito «racconta di non aver notato “nessun difetto sulle condizioni fisiche di Santapaola”. Nonostante i pantaloni larghi come un clown, le bretelle, la sedia a rotelle e le stampelle», continua il legale.

Al di là dei riscontri, mancanti secondo la difesa, l’obiettivo è quello di screditare la figura stessa di La Causa e i motivi del suo pentimento. «“La vita umana è sacra”, dice lui. E intanto ha almeno sei vite sulla coscienza – continua il legale – Ma chi vuole pigliare in giro? Questo è l’uomo che nei suoi esami e controesami si è permesso di fare minacce ai co-imputati e agli avvocati». Compreso lo stesso Strano Tagliareni, che ricorda l’episodio con voce rotta. «Ma lei dubita avvocato? Taliassi ca vulevunu ammazzari macari a lei», sono le parole pronunciate dal collaborante nell’udienza del 7 febbraio 2013. «Voi sulla bilancia della giustizia dovrete mettere su un piatto La Causa, con il suo passato criminale ammesso e le sue bugie dimostrate – conclude l’avvocato – e dall’altra Santapaola, il cui passato giudiziario al confronto sembra quasi la marachella di un bambino».


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Alle battute finali del processo, parlano per quasi sei ore gli avvocati del figlio del boss etneo Nitto, accusato di essere il capo di Cosa nostra etnea. Un ragazzo tranquillo, onesto lavoratore, perseguitato per il suo cognome, secondo la difesa. L'obiettivo è screditare i collaboratori che accusano l'imputato, soprattutto Santo La Causa:  «"La vita umana è sacra", dice lui. E intanto ha almeno sei vite sulla coscienza», quasi urlano in aula - Leggi la cronaca di tutte le udienze

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