Iblis, comincia la requisitoria dei pm «I collusi? Più pericolosi di cento estorsori»

«Ma la mafia era, ed è, altra cosa». Con una citazione dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia si apre la requisitoria del rito ordinario del processo Iblis, la maxi indagine sulle presunte collusioni tra politica, mafia e imprenditoria nel Catanese arrivata al suo ultimo capitolo giudiziario dopo un processo di primo grado lungo due anni. Quella che si è svolta ieri a Bicocca è stata solo la prima parte della discussione dei pubblici ministeri Agata Santonocito e Antonino Fanara, un riassunto delle prove a carico degli imputati – tra sentenze passate, intercettazioni, pedinamenti e il racconto di una ventina di collaboratori di giustizia – che occuperà magistrati e legali per altre quattro udienze. Dopo le premesse generali di ieri sul sistema catanese di Cosa nostra e le sue diramazioni politico-imprenditoriali, i pm analizzeranno nel dettaglio le posizioni degli imputati per poi formulare le proprie richieste di condanna.

Ad aprire i lavori, inquadrando l’importanza dell’indagine Iblis per la città e la provincia etnee, è stata Agata Santonocito. «Cosa rende l’associazione mafiosa così pericolosa, così diversa dalla semplice associazione a delinquere? – continua il magistrato – Il metodo intimidatorio e il suo fine, che non è solo lucro ma anche la gestione di appalti e servizi pubblici, e il controllo della politica». Economia e politica, settori in cui Cosa nostra catanese si sarebbe impegnata contemporaneamente ma che, «nonostante ci siano stati diversi processi, a noi sembra che negli ultimi 20 anni non si sia mai avuta la possibilità di verificare sul campo», continua il pm.

Gli attori di questo doppio lavoro criminale sarebbero stati almeno di due tipi: «L’operaio del crimine che opera nei quartieri» e «il mafioso in doppio petto o tailleur che opera nell’ambito imprenditoriale o politico». Una figura, la seconda, spesso sottovalutata. «Ma cento estorsori non sono pericolosi quanto pochi soggetti che, situati nei posti chiave, riescono a orientare la pubblica amministrazione secondo le proprie regole e l’interesse degli amici». Soggetti che si ritrovano allo stesso tavolo per motivi diversi: «Per la mafia l’interesse è quello di intercettare il fiume di denaro pubblico. Per gli altri i motivi sono soldi e potere, non necessariamente in quest’ordine».

Favori e voti nel caso dei politici, lavori e appalti in quello degli imprenditori. Gestiti, quest’ultimi, secondo le regole della messa a posto. «A Catania e provincia solo i Santapaola potevano occuparsi di questo settore, diverso dal pizzo ai commercianti gestito invece dal gruppo di quartiere», spiega Fanara. Un pagamento del due o tre per cento sull’importo dei lavori presi e che «come le tasse, dev’essere pagata da tutti, anche dagli stessi associati, sebbene con qualche sconto». Il pagamento può avvenire anche a rate e, in ogni caso, viene appuntato nella carta delle imprese. Soldi che confluiscono nella cosiddetta bacinella, «in cui nessun altro poteva mettere manco un dito», racconta il collaboratore di giustizia ed ex reggente del clan Santapaola Santo La Causa. Secondo le regole, queste somme andrebbero poi distribuite tra i soli uomini d’onore, anche quelli in carcere, o spesi per le esigenze dell’associazione, dagli stipendi alle parcelle dei legali. «Ma spesso i pochi uomini che gestivano la bacinella utilizzavano queste somme a fini personali», racconta ancora La Causa.

A gestire la messa a posto dei lavori in provincia era, secondo i magistrati, l’imputato Vincenzo Aiello, considerato il rappresentante provinciale di Cosa nostra etnea. Un ruolo delicato che prevedeva anche gli incontri e gli accordi con i vertici delle famiglie delle altre province in caso di appalti fuori dalla propria zona di competenza. E’ così che i pubblici ministeri delineano quella che viene definita la «struttura amministrativa di Cosa nostra», divisa in cinque province: Palermo, Catania, Agrigento, Trapani e Caltanissetta. Tra Palermo e Catania il rapporto rimane stretto, nonostante le differenze che vedono il capoluogo etneo «meno strutturato e con regole meno formali», spiega Santonocito. Contatti documentati nel periodo di indagine soprattutto con la famiglia dei Lo Piccolo del mandamento di San Lorenzo. «Ma Catania si muove a Enna come fosse a casa propria e ha ottimi rapporti anche con Messina, dove hanno operato in passato membri di sangue della famiglia Santapaola».

Rapporti di lavoro che, pian piano, hanno inglobato nella propria rete anche figure di politici e imprenditori. Spesso presenti per gli stessi scopi. «A Catania non vigeva il metodo Siino (da Angelo Siino, soprannominato il ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra) cioè non ci si sedeva tutti intorno a un tavolo per la spartizione – spiega Fanara – I tavoli tra politici e imprenditori venivano mantenuti separati». L’associazione mafiosa era quindi una specie di tramite, «che sembra quasi più umano, non minaccioso e che distribuisce posti di lavoro – commenta il pm – Peccato che lo faccia solo per le persone a sé vicine». Un rapporto che può essere di diversi ordini e gradi. «Sebbene gli imprenditori prendano spesso le distanze dall’associazione mafiosa, ammettendo di aver incontrato solo ogni tanto qualche suo membro o di aver pagato qualche volta ma di non condividerne i fini, in ogni caso hanno aiutato l’associazione stessa ed è una cosa gravissima», conclude Fanara.


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Si è tenuta ieri la prima delle cinque udienze dedicate alla discussione dei pubblici ministeri. Un riassunto delle prove a carico degli imputati - tra sentenze passate, intercettazioni, pedinamenti e il racconto di una ventina di collaboratori di giustizia - che è iniziato con le premesse generali sulla «struttura amministrativa di Cosa nostra», il ruolo dei politici e degli imprenditori negli accordi con la criminalità organizzata e il modo di quest'ultima di gestire questi rapporti. Ormai diversi dai business criminali tradizionali e nel Catanese prerogativa esclusiva dei Santapaola

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