I semi di Peppino

«La Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato? Dovrebbe essere qui vicino». Il carabiniere, guardandosi intorno, chiede conferma al collega con il quale sta facendo servizio su Corso Umberto I, la via principale di Cinisi. In effetti, è poco distante, al numero civico 220. Ingenuamente non l’avevamo annotato, pensando che sarebbe stato facile farcela indicare o individuare la targa che segnala che in quella casa, oggi luogo di memoria e  di cultura antimafiosa, è nato Giuseppe Impastato, un siciliano che ha lottato contro la mafia denunciandone le collusioni con la politica e che per questo è stato ucciso a soli trent’anni.

Un uomo difficile da definire con una sola parola. Ce ne vogliono almeno tre: attivista, politico e comunicatore e a tutte è d’obbligo aggiungere l’aggettivo “antimafia”.

In realtà, per Peppino, come lo chiamano tutti, quello è il luogo in cui si consuma, davanti la madre Felicia e il fratello Giovanni, lo scontro e la rottura con il padre Luigi.

Perché Peppino Impastato è figlio e nipote di mafiosi. Un suo zio paterno è quel Cesare Manzella ucciso nel 1963 dalla prima Giulietta imbottita di tritolo nella storia della mafia siciliana e il padre è affiliato al clan del boss del paese, Gaetano Badalamenti.

Peppino, fin da giovanissimo, decide di rompere con il padre e con i padrini. «Ha vissuto sempre dentro questa enorme ferita», spiega Umberto Santino, responsabile del Centro siciliano di documentazione a lui intitolato, «che lo fa spesso passare da fasi di entusiasmo a quelle di disperazione».

Cinisi, piccolo comune nella provincia di Palermo, è in quegli anni uno strano epicentro: da un lato è in mano alla mafia e dall’altro è considerato un “paese rosso”, per via del gruppo di extra-parlamentari di sinistra di cui Peppino è il leader. 

Con i suoi compagni si ribella alla mentalità del lasciare le cose come stanno, del detto “munnu ha statu e munnu è” (mondo è stato e mondo rimane), un mondo dove l’omertà è un principio, e intraprende battaglie ecologiste, sociali e culturali che fanno della sua antimafia un’antimafia dell’analisi e dell’azione, ancorata ai bisogni del suo tempo.

E in quel territorio, in vetrina per via della leadership nella cupola di Badalamenti, il gruppo di Peppino, a cominciare dal 1965 con il giornale L’idea socialista e poi con il Circolo Musica e Cultura nel 1976 e l’esperienza di Radio Aut un anno dopo, denuncia con i più svariati mezzi – volantini, giornali, tazebao, comizi, radio, ma anche foto e musica – lo scempio dell’esproprio dei terreni agricoli per l’ampliamento dell’aeroporto di Punta Raisi, porto franco per il traffico di droga con gli Stati Uniti di Badalamenti e compari, la speculazione edilizia e urbanistica che porta alla devastazione delle coste e alla costruzione di un’autostrada piena di curve, la Trapani-Palermo, per risparmiare i terreni dei mafiosi e degli amici degli amici. Peppino si schiera con i contadini e gli edili e rivela l’operato mafioso facendo nomi e cognomi.

Oggi può succedere che i carabinieri di servizio al centro di Cinisi non sappiano dove si trova la Casa Memoria, ai tempi di Peppino prendono il caffè al bar con i mafiosi, che sono ben noti e fieri di esserlo. Peppino, con la satira e l’ironia, li spoglia della loro falsa onorabilità. La gente ascolta la sua radio, anche se non lo dice, e ride alle loro spalle. «Per loro era insopportabile», ci racconta Salvo Vitale, compagno di Peppino e conduttore insieme a lui del programma Onda Pazza, la “trasmissione schizofrenica” di Radio Aut in cui Gaetano Badalamenti è Tano Seduto, Cinisi “Mafiopoli”,  il suo municipio il “maficipio” e Corso Umberto I “Corso Luciano Liggio”.

Peppino non infastidisce solo la mafia: «Cinisi campa grasso con la mafia, quindi Peppino rappresenta un nemico per gran parte dei Cinisensi, viene visto come un guastafeste», ci spiega Santino, mostrandoci i giornali dell’epoca.

Oggi a Cinisi non ci sono più i Badalamenti, ma la mafia non è scomparsa con loro, anche se non è più fiera di mostrarsi. «È cambiato il contesto», dice Santino «La situazione è peggiorata, perché quando Peppino coltivava i suoi progetti, c’erano le grandi realtà comuniste a livello internazionale, a livello nazionale c’erano il PCI, pur con i suoi difetti, e Lotta Continua e a quello locale noi come  nuova sinistra, adesso c’è il vuoto più completo».
 

Molte delle problematiche denunciate da Peppino, come l’inquinamento, la speculazione sulla gestione delle risorse idriche, sono ancora aperte. Punta Raisi non è più al centro del traffico di droga, ma si paga il pizzo per i lavori di restauro e restano i problemi strutturali: nelle giornate di scirocco gli aerei devono atterrare altrove. È stato costruito il villaggio turistico Z-10, il progetto di speculazione mafiosa con un giro di 6 miliardi che Peppino denuncia nei suoi ultimi giorni di vita, e la mafia controlla ancora il settore edilizio. Nessuno, però, parla di questi problemi.

«La comunicazione si è azzerata a Cinisi – osserva Vitale. L’omicidio, per quanto riguarda questo aspetto, ha colpito nel segno».

Dopo la notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, durante la quale Peppino viene fatto esplodere sui binari della ferrovia Trapani-Palermo, simulando un suicidio-attentato, però, i compagni non si sono fatti zittire dalla paura e hanno lottato per arrivare alla verità.

«La mafia pensava che saremmo rimasti in silenzio e invece non ci siamo arresi», ci dice Pino Manzella, uno dei compagni che ha partecipato alle ricerche dopo l’omicidio. Inaspettata è anche la reazione della madre e del fratello, che rifiutano la vendetta mafiosa, prendono le distanze dalla famiglia e denunciano il delitto affidandosi alle istituzioni.

Il loro impegno, assieme a quello del Centro di Documentazione, è stato fondamentale nelle indagini e nella riapertura dell’inchiesta che ha restituito onore, quello vero, a Peppino, etichettato anche dalla maggior parte della stampa come terrorista e suicida.

Grazie alla loro tenacia, il mandante Badalamenti è stato condannato all’ergastolo nel 2002, dopo 24 anni. La sua casa, che dista solo 40 secondi a piedi da quella di Peppino, è stata confiscata e consegnata dal sindaco di Cinisi all’associazione Peppino Impastato lo scorso maggio.

«M’aviti risuscitato me figghiu» (Avete fatto resuscitare mio figlio), dirà Felicia alla Commissione parlamentare antimafia, autrice della relazione che stabilisce la verità sul “caso Impastato” e sul depistaggio e in cui si afferma, per la prima volta nella storia del nostro paese, che magistrati e forze dell’ordine hanno coperto la mafia.

Nonostante ciò, Peppino era e resta un pazzo per le persone di Cinisi.

Ai funerali il paese si tiene a distanza e le finestre restano chiuse, come accade il 9 dicembre del 2004 per i funerali di Felicia, mentre le saracinesche dei negozi sono aperte nonostante il proclamato lutto cittadino.

Succede la stessa cosa ogni 9 maggio. Il paese si riempie di migliaia di persone che danno vita a un corteo, ma pochi sono quelli di Cinisi.

«I commercianti – dice Vitale – ci guadagnano ma vivono la manifestazione come un’invasione di extraterrestri che fanno casino e sporcano. I ragazzi che vengono a ricordare Peppino sono per i Cinisensi drogati e scansafatiche, come lo eravamo noi».

«I genitori impedivano ai figli di frequentare il circolo Musica e Cultura. Le ragazze che facevano parte del collettivo femminista erano diffamate e considerate prostitute o lesbiche. C’era una compagna che indossava sempre cappelli e grandi occhiali scuri, per non farsi riconoscere», ricorda Manzella, che una di quelle ragazze l’ha sposata.

Secondo Santino, su Cinisi la morte di Peppino non ha avuto alcun effetto: se prima i Cinisensi non si ribellavano per consenso, adesso non lo fanno per disinteresse.

«Oggi si associa la figura di Peppino alla legalità, ma spesso questa è intesa come conformismo – dichiara Vitale. Peppino invece era un contestatore delle leggi sbagliate, la legalità per cui si batteva era democratica e costituzionale. Si ricorda come un’icona, ma la sua analisi critica non si approfondisce perché per molti è ancora scomoda».

Per Cinisi è una ferita aperta che dà fastidio e che si vuole dimenticare.

«Non era omogeneo alla cultura del paese – continua Vitale. Lui promuoveva l’intervento e la denuncia, mentre a Cinisi c’è una cultura di immobilità e di interessi. E i giovani sono tutti eredi di questa cultura. Quelli che fanno il servizio civile alla Casa Memoria, per esempio, finito l’anno, non si fanno più coinvolgere in iniziative. E gli altri li vedi bivaccare davanti al portone, seduti sul gradino, però non ci mettono mai piede. Quella casa ha migliaia visitatori, ma per il paese è un corpo estraneo, così come lo era Peppino».

Un corpo che è stato dilaniato. «Ho raccolto i pezzi di Peppino – ci racconta Manzella dopo averci accompagnato lungo i binari in cui è stato fatto esplodere, oggi ricostruiti. Ogni tanto mi è capitato di pensare a quei resti, a Peppino che viene quasi seminato in un territorio che sarebbe rinato dopo la sua morte. In realtà questo non è successo».

«Peppino a Cinisi – conclude Vitale – è passato come una meteora, non possiamo dire che ha lasciato concretamente segnali di cambiamento. Ci sono segnali di memoria, che sono lì, come semi in attesa che possano produrre qualche cosa».

Foto di Danila D’Amico – fotografa, Palermo.

 

Agata Pasqualino

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