Che fine hanno fatto Salvatore Colletta e Mariano Farina? Un collaboratore racconta che quando sparirono c'era anche un terzo ragazzino, oggi indagato. «Secondo me non si dovevano trovare neanche le ossa, si doveva fare credere che si fossero allontanati»
I ragazzini di Casteldaccia nei racconti di un pentito «Sono finiti sotto terra o in qualche vasca con l’acido»
Di Mariano Farina e Salvatore Colletta non resta, forse, più nulla. Perché dietro la sparizione dei due ragazzini di Casteldaccia, quel pomeriggio di 27 anni fa, ci sarebbe Cosa nostra. E a dirlo è stato, già nel 2015, un collaboratore di giustizia. Un racconto che adesso l’uomo svela in esclusiva a MeridioNews. Quello che ha raccontato ai magistrati lo ha saputo quando era solo un ragazzino di 14 anni. E a rivelargli quei dettagli che di recente hanno portato alla riapertura delle indagini sarebbe stato un suo coetaneo. «Solo che oggi sono padre e mi metto nei panni di quei genitori, che per tutto questo tempo non hanno saputo niente né hanno avuto un luogo in cui portare un fiore». E lui quella storia, malgrado siano passati quasi trent’anni, non l’ha dimenticata. «Guardate, so questa cosa, non so se è vera», azzarda coi pm. Che lo ascoltano. E che trovano i riscontri necessari per riaprire una nuova, ma forse neanche troppo, pagina dell’inchiesta. «I magistrati lo sapevano già che la pista era quella mafiosa». Al contrario della famiglia di Salvatore Colletta che, invece, ha sempre scartato con forza questa ipotesi.
Il suo racconto, di quel ragazzino di 27 anni fa e il suo oggi a MeridioNews, sovverte il primo dettaglio dato in tutto questo tempo per assodato: «I ragazzini non erano due, erano tre». Cosa significa? Che quel 31 marzo 1992 sparisce anche un altro bambino che nessuno ha mai cercato? Non esattamente. Un terzo ragazzino c’è ma non sparisce. E non sparisce malgrado sia con Mariano e Salvatore nel momento esatto in cui scompaiono nel nulla. «Sai, eravamo a Casteldaccia quel giorno, in un villino», avrebbe detto il terzo ragazzino al collaboratore, all’epoca suo coetaneo. Non è un villino qualunque, però. È uno di quelli di via Schettino, dove c’è la rotonda. «Quella era la zona residenziale dei boss, oggi molte ville lì sono sequestrate», racconta il collaboratore. «Tutti boss della vecchia mafia di Riina – dice -. Bagarella, Inzerillo, tutti lì, in quelle case che davano sul mare». Mariano, Salvatore e altri amici pare avessero l’abitudine di giocare proprio lì e di infilarsi in quelle case, in quelle ville. «Magari quel giorno c’era qualcuno che si stava nascondendo, un latitante. Ha visto i ragazzini entrare nella proprietà e ha chiamato chi di dovere».
Intanto, loro giocano. Tutti e tre. Quando improvvisamente arrivano tutt’assieme alcune macchine, «io sono riuscito a scappare, ma l’ho sentito che a loro li hanno presi», racconta il ragazzino di allora, il terzo, quello che si salva. «Mi disse che si era nascosto in un punto, fino a sentire le macchine che si allontanavano e che portavano via Mariano e Salvatore – riferisce oggi il collaboratore -. All’epoca controllarono anche la piccola discarica di Casteldaccia, scavarono ma senza trovare niente. Non so se ricordo bene o male, non so se si tratta dello stesso ragazzino, ma il miracolato era figlio di un carabiniere, che all’epoca faceva servizio a Casteldaccia. E secondo me questo ragazzo è stato tenuto fuori da qualche carabiniere proprio perché avevano paura se si fosse saputo che quel giorno erano appunto in tre e uno era rimasto vivo». Quel ragazzino è Vincenzo Rosselli, oggi 41enne, indagato insieme allo zio Guido Rosselli per i fatti di quel 31 marzo ’92.
Quella villa, infatti, è riconducibile proprio alla loro famiglia, a quello zio oggi coinvolto anche lui nei nuovi approfondimenti della Procura. «Ho fatto io i loro nomi», dice il collaboratore. Che non si limita a questo. Parla, infatti, anche di un altro dettaglio molto preciso e dà un’indicazione netta: «Guardate nella cisterna», quella dentro alla villa di via Schettino. È lì che vengono ritrovate, intatte dopo 27 anni, le cartacce di alcune merendine, con la data di scadenza ancora perfettamente leggibile e che riporta proprio all’epoca della scomparsa. «Per sollevare il portellone della cisterna occorrono almeno tre-quattro persone ben messe, coi muscoli, i bambini non avrebbero potuto aprirlo mai. Si può pensare pure, quindi, che quei bambini potrebbero anche essere stati tenuti là dentro e gli buttavano le merendine per farli mangiare, qua la cosa è un po’ strana, è da verificare bene secondo me – dice il collaboratore, invocando cautela -. Le merendine ben conservate dopo tutti questi anni… Quindi è una cisterna che tiene bene».
Non sa altro, lui, ragazzino quattordicenne che senza rendersene conto raccoglie il racconto di un dramma. Ma tanto gli basta per non dimenticare e, purtroppo, per non ipotizzare alcun lieto fine. «Questi bambini secondo me sai che fine hanno fatto? O sono finiti sotto terra o in qualche vasca con l’acido, per levare tutte le prove – dice di getto, concedendosi poi una lunga pausa -. Li hanno tenuti là e nel momento giusto forse li hanno consegnati a chi li dovevano consegnare che se li doveva portare, vivi o morti com’erano. Secondo me non si dovevano trovare neanche le ossa, si doveva fare credere che si fossero allontanati spontaneamente, perché finché non trovi niente stai sempre con la speranza. Non so se quel ragazzino, oggi adulto sotto indagine, mi raccontò questa storia in questo modo perché gli avevano detto che doveva dire così, magari sa molto di più lo zio, le merendine le hanno trovate nella sua cisterna, significa che questi bambini sono passati da loro allora, o quanto meno dallo zio. Non so se servirà, ma spero che tutto questo porti davvero a qualcosa, finalmente».