Cos'era il cosiddetto Palazzo di Cemento di Librino? Un luogo dove povertà e illegalità convivevano da anni. In questo videoreportage vi facciamo ascoltare, tra le altre, le voci di chi è stato sfrattato da quel posto e quella dell'assistente sociale che si è occupata della questione per conto dell'amministrazione comunale di Catania - Che cos'è il palazzo di cemento
«I ragazzi lavoravano. Mio marito no»
«Volere è potere. Quando una cosa si vuole, la si fa» così Carmela Campione, assistente sociale nominata dall’amministrazione del comune di Catania per seguire le vicissitudini degli sfrattati del palazzo di cemento, a Librino. Sgomberati dal palazzo il 17 maggio, perché “abusivi”, dalle forze dell’ordine. Costrette a riporre le loro cose all’interno di scatoloni, trentacinque famiglie attualmente non hanno una casa. Molti di loro si possono trovare al Duomo, seduti sotto l’imponente Liotro. Li vedi che chiacchierano tra loro, salutando di tanto in tanto il sindaco Stancanelli che si affaccia dall’alto delle sue stanze, con la speranza di non trovarli più davanti ai suoi occhi. Già, gli sfrattati non sono passati inosservati.
È dalla pasqua scorsa che manifestano per “il diritto alla casa”, accogliendo i turisti con un pezzo di tuma, un bicchiere d’acqua, che tenevano sistemati sui tavolini. Sì, perché prima dello sgombero, alcuni di loro si erano accampati davanti al Municipio con delle tende da campeggio. E dopo, le tende sono diventate di più.
L’amministrazione comunale, che pensava di essersi liberata di loro, non ha retto a una simile provocazione. Il 19 maggio è partita una carica di forze dell’ordine, circa cento uomini, tra poliziotti e vigili urbani, per sgomberarli anche dalla piazza. Una parentesi incresciosa, visto che le residenze anagrafiche, concesse a queste famiglie nel palazzo occupato di viale Moncada 3, dai suoi uffici sono uscite. Esattamente come l’ordine di sgomberare. E la tassa sui rifiuti urbani? Pagata annualmente da alcuni nuclei familiari all’amministrazione. «Le passate amministrazioni hanno commesso degli errori. Questa invece non vuole più farlo», dice l’assistente sociale.
Quindi fuori tutti, anche se del palazzo, ad oggi, la sorte è incerta. Vi faranno uffici o altro? Lasceranno che altri poveri cristi lo occupino? Ma soprattutto, quale sarà la sorte degli sfrattati? «Il comune per legge deve garantire un buono casa di duecentocinquanta euro che possa aiutare queste famiglie a pagare gli affitti di abitazioni, possibilmente a prezzo calmierato» spiega Campione. Ma cercare una casa a prezzo calmierato non è facile. E rivelare ai potenziali affittuari che il comune contribuirà al pagamento mensile, non è un buon biglietto da visita per gli sfrattati.
Attualmente le famiglie sono state sistemate in alcune pensioni del centro storico catanese. Altri in monovani sparsi tra Acicastello e via Gastone. Alcuni si trovano nella colonia Don Bosco, in viale Kennedy. Qualcuno, infine, dorme alla Caritas. Alloggi temporanei, perché «questo è ciò che il comune può offrire» spiega la Campione. E che, tra qualche mese, dovranno abbandonare. Non tutti però hanno accettato di dormire in questi alloggi. «Una signora mi ha afferrata per un braccio gridandomi che non può vivere in una stanza dormendo insieme ai figli, perché non potrebbe concedersi dei momenti di intimità con il marito» sbotta l’assistente sociale. Certo è che la paura d’essere dimenticati lì e la voglia di reclamare una casa popolare sono diventati degli imperativi per gli ex abitanti del palazzo. Molti di loro infatti avrebbero voluto in passato anche mettersi in regola. «Ho fatto domanda tante volte. Non l’hanno mai accettata» spiega una sfrattata. «Io qualche mensilità l’ho pagata» afferma un’altra. «Presto ci sarà una tavola rotonda con la prefettura» spiega Pierpaolo Montalto, segretario di Rifondazione Comunista e legale degli sfrattati, mentre distribuisce volantini. E continua: «In quell’occasione dobbiamo farci sentire».
Sono lavaggisti, ausiliari, pescatori, quelli che vivevano al palazzo. Sono bambini e bambine, anziani e diversamente abili. Tanti. Sono uomini e donne che combattono ogni giorno per portare «venticinque euro a casa», come ci spiega Giuseppe che, dovendo aiutare la moglie e i bambini durante la permanenza temporanea all’hotel Mele, sta rischiando di perdere il suo lavoro da lavaggista. Certo non tutti sono come lui. Alcuni hanno scelto di incamminarsi per altri sentieri, brevi e facili, per portare il pane a casa. Ma tutti sono figli dell’indifferenza. Di promesse ai comizi, o di “favori” richiesti ed eseguiti negli angoli bui del palazzo in cui vivevano. Di madri che, chinando senza amore la testa, a loro hanno trasmesso l’arte dell’arrangiarsi. Ché l’unica colpa di questa gente, se si può attribuire loro, è quella di non possedere la coscienza dei propri diritti. Né le parole giuste e i comportamenti per reclamarli e pretenderli.