Attraverso violenze e minacce, veniva imposto ai gestori di noti pub notturni della città sia l'addetto di turno da impiegare sia la tariffa con cui pagarlo. A reggere i fili persone vicine al mandamento di Porta Nuova e alla famiglia di Palermo Centro
I buttafuori della mafia nei locali della movida «Stasera qualche madre deve piangere un figlio»
«Dobbiamo essere noialtri a lavorare là compà!». Parlava così, ignara di essere intercettata, una delle undici persone coinvolte nel blitz di questa mattina e arrestate per estorsione aggravata. È con pesanti minacce verbali che Cosa nostra imponeva nei locali della movida palermitana la presenza di suoi uomini di fiducia per fare i buttafuori. Minacce spesso indirizzate non solo al gestore di turno che tentava di opporre resistenza, ma anche ai suoi famigliari. L’organizzazione riusciva a controllare i servizi di sicurezza privata nei locali di Palermo e anche della provincia imponendo non solo gli addetti ma anche le tariffe per ogni operatore impiegato. Un fenomeno che era, in parte, emerso già quattro anni fa con l’omicidio del giovane medico Aldo Naro, pestato a morte il 14 febbraio 2015 all’interno della discoteca Goa, dove stava trascorrendo la serata con alcuni amici.
Un delitto che ha puntato i riflettori su tanti aspetti della vicenda. Compresa la presenza di alcuni buttafuori cosiddetti abusivi a lavoro nel locale quella sera, che sarebbero stati imposti all’epoca dalla mafia della zona alla discoteca. Tanto che gli avvocati della famiglia Naro, che da tempo chiedono di far ripartire da zero le indagini orientandole sul reato di omicidio e non di rissa, in tempi non sospetti hanno suggerito che fosse «probabile che alcuni di questi saranno sicuramente tra gli assassini di Aldo Naro, per cui c’è un clima di resistenza, di minacce, di paura e omertà, se non si scava lì non andiamo da nessuna parte». Lo stesso clima emerso anche in questa occasione. Le indagini, partite nel 2016 – un anno dopo il delitto Naro – e condotte per due anni, infatti, si sono avvalse di alcune segnalazioni poi sviluppate dagli inquirenti. Ma di nessuna denuncia. «Nessuno si è fatto avanti di sua spontanea volontà», chiarisce il tenente colonnello Angelo Pitocco, comandante del gruppo carabinieri di Palermo.
«Una volta convocati, in molti poi hanno risposto alle domande confermando lo scenario che andava emergendo. Ma no, nessuno è venuto a denunciare estorsioni e imposizioni», ribadisce. Malgrado non siano stati documentati, nelle corso delle indagini, episodi di raid punitivi o altro. Cosa nostra però minacciava senza scrupoli, per esempio «alludendo alla possibilità di fare accadere all’interno dei locali dei disordini tramite malviventi al soldo dell’organizzazione mafiosa». La figura di spicco dell’organizzazione, secondo gli inquirenti, era Andrea Catalano, che avrebbe sfruttato i suoi solidi legami con gli esponenti di vertice dei mandamenti mafiosi di Porta Nuova. Ma per gli investigatori l’episodio più emblematico è quello che ha riguardato Massimo Mulè, uomo d’onore reggente della famiglia mafiosa di Palermo Centro, già arrestato nel 2018 con l’operazione Cupola 2.0 e, prima ancora, nel 2008 con l’operazione Perseo. Lo scorso agosto era stato scarcerato dopo la pronuncia del Riesame, e pare non ci avesse messo troppo a rientrare nel giro dei vecchi affari.
«Abbiamo accertato che si era adoperato affinché suo cognato, Vincenzo Di Grazia, venisse stabilmente assunto come buttafuori in un noto locale». Le lamentele del capo della sicurezza di quel locale, costretto a escludere, a turno, uno degli addetti solitamente impiegati, sarebbero state prontamente soffocate dai fratelli Andrea e Giovanni Catalano con minacce pesantissime nei suoi riguardi e dei suoi familiari. «Ti rompo le corna, ti metto le mani addosso», il tenore delle minacce intercettate nel corso delle indagini. A volte anche sbandierato senza troppi problemi armi e pistole per risultare più convincenti. «Questa sera c’è il rischio che qualche madre deve piangere un figlio», emerge ancora dalle conversazioni registrate dagli investigatori. «Io le risse le faccio quando voglio! Qua sono tutte cose mie, il locale è mio! – diceva uno degli arrestati all’indirizzo del proprietario di uno dei locali finiti nell’elenco di Cosa nostra -. Tu lo sai che sei morto! Domani veniamo con i grossi».
I singoli buttafuori venivano chiamati e pagati per singole serate, assunti dagli stessi gestori dei locali ovvero da apposite società specializzate nell’attività di sicurezza dei locali, che a fronte di una percentuale sul compenso dei singoli lavoratori, si occupava del reclutamento degli stessi e delle relative denunce amministrative e previdenziali. Mentre, per eludere la normativa di settore erano state fondate due associazioni di volontari antincendio nell’ambito delle quali venivano formalmente impiegati, in qualità di addetti antincendio, quei buttafuori che a causa dei loro precedenti penali si trovavano nell’impossibilità di ottenere la necessaria autorizzazione prefettizia. Numerose intercettazioni hanno consentito di documentare le estorsioni nei riguardi dei titolari di almeno cinque locali notturni di Palermo e provincia ai quali veniva imposta, mediante violenze e minacce, l’assunzione dei buttafuori.
Tutti i destinatari della misura: Massimo Mulé, 47 anni; Andrea Catalano, 52 anni; Giovanni Catalano, 44 anni; Vincenzo Di Grazia, 39 anni; Gaspare Ribaudo, 28 anni; Antonino Ribaudo, 52 anni; Cosimo Calì, 46 anni; Emanuele Cannata, 24 anni; Mario Giordano, 18 anno; Emanuele Rughoo Tejo, 43 anni; Francesco Fazio, 22 anni.