Giovanni Falcone tra successi e tradimenti

di Franco Nicastro

«Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il perseguitato verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora». Così Giovanni Falcone in ‘Cose di Cosa nostra’ (1). A scorrere l’ultimo ventennio di storia politico-giudiziaria balza evidente che avere disatteso questo principio è costato lacrime e sangue a un notevole numero di cittadini, mentre Falcone ha pagato un alto costo per la coerenza con cui l’ha perseguito.

 

Caponnetto e la sua eroica mezza dozzina

Nel novembre 1983 Antonino Caponnetto subentra a Rocco Chinnici nella carica di consigliere istruttore della Procura di Palermo (2). Qui si blinda o, meglio, si seppellisce per quattro anni nella sobria stanzetta di una caserma della Guardia di Finanza che condivide con il suo ufficio a Palazzo di Giustizia. Lo fa non per paura ma a evitare di esporsi per malinteso coraggio. Lo stesso senso di responsabilità lo induce a mantenere un basso profilo e di non personalizzare la battaglia antimafiosa. Principi che ispireranno sempre la condotta di Giovanni Falcone e che costituiranno il suo costante invito ai colleghi magistrati (3).

Caponnetto organizza a Palermo il primo pool antimafia della storia giudiziaria italiana. Il codice prevedeva il giudice monocratico, non il pool. Il che faceva sì che la lotta alla mafia fosse parcellizzata: si perseguivano i singoli delitti e le istruttorie venivano spezzettate. Caponnetto aggira l’ostacolo procedurale assegnando formalmente a sé tutte le pratiche, ma delegando il compimento dei singoli atti sempre allo stesso gruppo di magistrati, che si scambiano le informazioni e danno un senso logico a fatti che altrimenti sarebbero apparsi scollegati. Così la mafia viene affrontata come organizzazione unitaria. La decisione segna una grande svolta nel metodo giudiziario di lotta a ‘cosa nostra’. I magistrati di cui si avvale Caponnetto sono Leonardo Guarnotta, il più anziano, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giacomo Conte e Ignazio De Francisci. Con questa mezza dozzina completa il lavoro di indagine avviato da Chinnici e che porta allo spettacolare processo contro ‘cosa nostra’ siciliana. Inoltre, all’arresto di Vito Ciancimino e dei gabellieri Nino e Ignazio Salvo, avamposti della mafia nella società politica, degli affari e della finanza isolani.

Caponnetto coordina le indagini dei suoi collaboratori con mitezza e decisione tirando fuori da ognuno la parte migliore. Assiste con lucida mente giuridica Falcone e Borsellino nell’istruire la monumentale sentenza ordinanza di 8.607 pagine contro l’organizzazione mafiosa siciliana, i suoi intoccabili capi, gregari e manutengoli di ogni livello. Un fondamentale aiuto all’impostazione del pool lo danno nel 1984 le dichiarazioni del boss Tommaso Buscetta, secondo cui ‘cosa nostra’ era un’organizzazione sostanzialmente unitaria, con una direzione rigidamente verticistica e piramidale, per cui i membri della “cupola” dovevano essere ritenuti i mandanti responsabili di tutti i delitti commessi dall’organizzazione. Alle indagini del pool danno un contributo sostanziale anche altri pentiti di mafia.

La mafia reagisce e fa massacro dei funzionari di polizia che sono i più temuti collaboratori del pool. Avuto sentore di un attentato a Falcone e a Borsellino, Caponnetto manda i due magistrati all’Asinara per completare la stesura del provvedimento che porterà al primo maxiprocesso. Questo inizia il 10 febbraio 1986 nell’aula bunker di Palermo e riguarda 456 imputati. La Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfonso Giordano, pronuncia la sentenza il 16 dicembre 1987, dopo ventidue mesi di udienze e trentacinque giorni di camera di consiglio. Accogliendo la richiesta dei pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, la Corte condanna all’ergastolo tutti i componenti della “cupola” (da Michele Greco a Filippo Marchese, da Salvatore Riina a Bernardo Provenzano e a Pino Greco). Infligge, inoltre, condanne complessive per 2.665 anni di carcere e multe per 11 miliardi e mezzo di lire. Stabilisce anche 114 assoluzioni con varie motivazioni; ne beneficia tra gli altri Luciano Liggio, in carcere dal 1974.

L’atto di accusa del pool supera tutti i gradi di giudizio fino a quello della Cassazione, il 30 gennaio 1992.

 

Il palazzo dei veleni

Le vicende giudiziarie del periodo hanno ripercussioni all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo anche per il sorgere di una seconda generazione di pentiti che si vogliono manovrati dalla mafia e che hanno un ruolo insidioso nel tentativo di destabilizzare alti personaggi, corpi politici e istituzioni pubbliche. I magistrati si dividono su questioni di principio e di metodo. Le dispute, però, sfociano ben presto in inquietanti aggressioni personali consumate attraverso la diffusione di scritti anonimi che pongono il Palazzo di Giustizia al centro di un’attenzione sempre meno benevola del sistema mediatico e dell’opinione pubblica. I veleni che si sprigionano investono anche i magistrati del pool e hanno un riverbero negativo immediato su Giovanni Falcone, che nel frattempo è divenuto uno degli uomini simbolo della lotta alla mafia.

Nel marzo del 1988, dopo quattro anni, Caponnetto lascia Palermo per tornare a Firenze. Egli parte sicuro che la nidiata del pool sia cresciuta abbastanza per proseguire da sola il lavoro impostato con il maxiprocesso. È convinto, inoltre, che, secondo la sua indicazione, Falcone gli subentri nell’incarico di consigliere istruttore. Invece, il Consiglio superiore della magistratura boccia la candidatura di Falcone e nomina il concorrente Antonino Meli privilegiando il criterio dell’anzianità. Caponnetto manifesta la sua delusione dimettendosi dal Csm.

 

L’ostilità della sinistra giacobina a Falcone

Contrariamente a quanto si è cercato di accreditare, a bocciare Falcone sono le correnti politiche e giudiziarie della sinistra radicale (Pds, la Rete e Magistratura democratica). Infatti, nel gennaio del 1988 quando al Csm è in discussione la nomina, l’esponente di Magistratura democratica, Elena Paciotti (4), motiva così la scelta a favore del concorrente di Falcone: «Quanto alle attitudini di entrambi i candidati in questione, più che in ogni altro caso, si segnala l’esperienza penalistica e la specifica trattazione di processi penali a carico di imputati di mafia. Se di straordinario valore è l’esperienza investigativa e la novità di impostazione delle indagini in questa materia del dottor Falcone, non si può ignorare l’accurata istruttoria dibattimentale condotta dal dottor Meli in uno dei più gravi processi di mafia di questi anni che riguardava l’omicidio Rocco Chinnici. E quanto alle capacità organizzative dei vari concorrenti […] non può negarsi che sussista anche per il dottor Meli, non tanto per la temporanea direzione da parte sua del tribunale di Caltanissetta in un periodo difficile, quanto per il lungo e lodevole svolgimento di funzioni di presidente di Corte d’Assise di primo e di secondo grado, che attesta capacità di direzione e di coordinamento dell’attività giudiziaria di soggetti diversi. Si addebita al dottor Meli di non aver mai svolto attività di giudice istruttore, ma neanche il dottor Caponnetto credo che avesse mai svolto simili attività».

La verità vera è però che lo schieramento giustizialista non perdonava a Falcone di avere bloccato e messo fuori gioco il pentito Giuseppe Pellegriti, che accusava Salvo Lima e Giulio Andreotti di essere i responsabili della morte di Piersanti Mattarella. Secondo la ricostruzione di Fabrizio Cicchitto e di Lino Jannuzzi – che ormai è diventata una verità incontrastata – la manovra contro l’eurodeputato dc era stata imbastita dietro le sbarre da Angelo Izzo, ex estremista nero, massacratore del Circeo e autore di altri efferati delitti. Izzo aveva detto a un pentito di mafia catanese, Giuseppe Pellegriti, che a commissionare il delitto Mattarella era stato Salvo Lima, consapevole Giulio Andreotti, e che l’esecutore materiale era stato tale Carlo Campanella. Pellegriti, dopo accenni al pm bolognese Libero Mancuso e all’alto commissario antimafia del tempo, Domenico Sica, informa Falcone. Falcone, non si lascia suggestionare dalla clamorosa rivelazione e dopo una rapida indagine scopre che il giorno dell’assassinio di Mattarella Campanella era in carcere. Contesta la circostanza a Pellegriti, il quale in breve cede e rivela che il suo suggeritore era stato Izzo. Dopo qualche altro riscontro, nell’ottobre del 1989 Falcone emette contro l’estremista nero e il mafioso mandati di cattura per calunnia aggravata. Nel marzo del 1991, alla richiesta di rinvio a giudizio per gli omicidi “eccellenti” commessi o commissionati da ‘cosa nostra’, Falcone e i magistrati del pool aggiungono quella nei confronti di Izzo e Pellegriti definiti «strumenti di un abile depistaggio smascherati da indagini che hanno finalmente rivelato in maniera inequivocabile come sia stato in realtà Angelo Izzo la vera fonte e l’ispiratore delle false rivelazioni di Pellegriti».

In previsione del colpo di scena, il 19 agosto 1989 l’esponente del Pds Luciano Violante (5) aveva scritto sul quotidiano del suo partito l’Unità: «Siamo vicini a una verità pericolosa che può squarciare il sipario che sinora ha nascosto gli assassini di Palermo».

«Falcone – scrive Cicchitto – deluse queste aspettative perché, dopo averlo interrogato, incriminò Pellegriti per calunnia. Le sinistre non hanno mai perdonato a Falcone di aver fatto perdere almeno tre anni di tempo all’attacco giudiziario contro Andreotti e alla criminalizzazione di tutta la Dc. Dieci anni dopo, il pubblico ministero del processo Andreotti, Roberto Scarpinato, parlando nel corso della requisitoria finale di Pellegriti, dice che stava per scattare su Andreotti una trappola infernale: “Una settimana ancora, forse un solo giorno, e Andreotti avrebbe ricevuto a Palazzo Chigi l’avviso di reato per associazione mafiosa e per l’assassinio di Mattarella”. Andreotti, secondo Scarpinato, ne era terrorizzato, ci sarebbe stata inevitabilmente la crisi del suo governo e sarebbe comunque finita la sua carriera politica. “L’ha salvato Giovanni Falcone – afferma Scarpinato – che ha disinnescato quel giorno stesso la miccia. È corso a sentire Pellegriti a Bologna, è tornato a Palermo e ha incriminato il pentito per calunnia”».

«Scarpinato – conclude Cicchitto – si duole dunque di non aver potuto, per colpa di Falcone, mettere le mani su Andreotti con tre anni di anticipo, e non è il solo. Luciano Violante accusa Falcone di essere stato, quantomeno, “precipitoso”. Leoluca Orlando non si trattiene più e si scatena…».

In Orlando si radica la convinzione che Falcone volesse proteggere Andreotti. E glielo contesta apertamente il 24 maggio 1990, durante una tesa puntata di ‘Samarcanda’, il programma televisivo condotto da Michele Santoro. «Falcone – dice Orlando – ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti, anzi, in otto scatole chiuse in un armadio».

L’accusa verrà ripetuta insistentemente anche da alcuni esponenti del suo movimento la Rete, tra cui Carmine Mancuso, presidente del Coordinamento antimafia di Palermo, e l’avvocato Alfredo Galasso, già deputato regionale del Pci.

Falcone risponde a Orlando su l’Unità invitandolo a fare i nomi e in caso contrario a stare zitto. E continuerà a dire che quelle carte non contenevano nulla di nuovo. Nella sentenza della Cassazione per l’attentato a Falcone del 29 luglio 1989 all’Addaura di Palermo si parla anche di quello che viene definito «l’infame linciaggio» del magistrato.

Falcone era stato sostanzialmente accusato di essersi piazzato la bomba da solo. È il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente dell’Antimafia, a scrivere che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».

La sentenza istruttoria sui delitti eccellenti

L’ostilità delle sinistre a Giovanni Falcone si trasforma in aperta avversione nel febbraio del 1991 quando, dopo dieci anni di indagine, il pool di magistrati da lui diretto deposita la sentenza istruttoria sui delitti di Piersanti Mattarella, Michele Reina e Pio La Torre. Secondo il pool, allo stato degli atti risultava che i tre esponenti politici erano stati uccisi per mandato di ‘cosa nostra’ perché «il loro ruolo aveva creato e poteva creare un’azione di disturbo a una pluralità disomogenea di centri di imputazione di interessi illeciti» (6).

Le successive indagini non hanno modificato il quadro istruttorio delineato nella sentenza. Cade, dunque, l’ipotesi di una saldatura criminale tra mafia e politica, zelata da più parti e in particolare dal Pci-Pds, e di mandanti attribuiti più o meno esplicitamente all’area dc. Questa prospettiva addirittura si ribalta per quanto riguarda la fine di Pio La Torre. Stavolta la posizione del Pci è veramente «diversa», ma nel senso opposto a quello che da sempre i suoi esponenti hanno reclamato. Perché, se si vogliono caricare di responsabilità politica i tre fatti di sangue, l’unico partito chiamato in causa è quello comunista, sia per quanto riguarda il delitto del loro esponente, sia per altri aspetti di malcostume di solito attribuiti alle altre forze politiche. E, come sempre, per sospetti alimentati dall’interno dello stesso Pci. Il risultato di anni di parziale omologazione del Pci al sistema del malaffare negli anni veramente bui della Regione (gli Ottanta) è presentato in forma cruda nella requisitoria, che mette in subbuglio il mondo politico e dell’informazione per l’inedita chiamata in causa dell’ex Pci.

Il professore Elio Rossitto, a lungo esponente del Pci, nelle dichiarazioni rese ai magistrati ipotizza che il movente del delitto di La Torre «potrebbe essere individuato nel fatto che egli avrebbe fatto cessare un’altra “alleanza” tra il Partito comunista siciliano e Ciancimino (nonché i corposi interessi imprenditoriali e speculativi a quest’ultimo collegati) nel più lucroso “affare” del progetto per il risanamento della costa orientale di Palermo».

«Emergono chiaramente dalle risultanze istruttorie – afferma la requisitoria – le difficoltà che La Torre dovette riscontrare, all’interno del partito siciliano, nella sua opera di moralizzazione». Rossitto racconta ancora che nella gara-appalto per la costruzione del palazzo dei Congressi di Palermo un pezzo del partito, assieme a Vito Ciancimino (nella foto a sinistra tratta da solleviamoci.wordpress.com), avrebbe appoggiato l’impresa Tosi – considerata vicina al Pci – in contrapposizione a Lima favorevole al gruppo Costanzo di Catania.

«Sia – dice Rossitto – che La Torre abbia provocato l’intervento all’Ars del Pci per evitare una prevaricazione ai danni di un’impresa estranea a corruttele e irregolarità, sia invece che almeno una parte del Pci fosse d’accordo proprio con Vito Ciancimino per pilotare, in cambio di notevoli somme di denaro, l’aggiudicazione dell’appalto, gli interessi in gioco erano forti». Per quell’affare – secondo Rossitto – al Pci sarebbero andati 480 milioni di vecchie lire.

Quindi è la volta di un altro militante comunista, Paolo Serra. Nell’istruttoria è detto che, subito dopo l’omicidio di La Torre (nella foto sotto  destra tratta da ars.sicilia.it), Serra invia ai magistrati una lettera ove suggerisce di indagare all’interno del Pci. In essa parla di progettazioni affidate dall’Italter a professionisti designati dal Pci, di appalti, di cooperative rosse, del progetto della Sailem sulla costa orientale di Palermo.

«È mia convinzione – dice Serra durante l’interrogatorio – che l’omicidio sia maturato anche all’interno del Pci palermitano». Serra viene subito dopo espulso dal partito. Così come le supposizioni di Rossitto, le accuse di Serra non trovano conferme, solo smentite e versioni contrapposte; ma -conclude la requisitoria – offrono lo spaccato di un partito entro al quale ci sono forti ostilità.

Le conclusioni del pool sono clamorose e suscitano un’ampia eco nel sistema informativo nazionale. Riportiamo, emblematicamente, come il 13 marzo 1991 la vicenda è proposta dal massimo quotidiano del Paese. Il Corriere della Sera annuncia nel titolo ‘L’antimafia accusa i comunisti’; quindi riassume il contenuto della requisitoria così: «Molti sospetti senza sbocchi giudiziari dalla monumentale requisitoria dei magistrati palermitani: una rilettura della stagione dei grandi appalti – Una parte del Pci e Ciancimino insieme nel “Comitato d’affari” – La tesi di un’opposizione “interna” all’opera moralizzatrice di La Torre – La posizione di Piersanti Mattarella: un alleato dell’andreottiano Lima – Reina, segretario provinciale della Dc, prima di essere ucciso era in guerra con Don Vito – I leader regionali del Pds annunciano querele». Gli ampi servizi dedicati dal Giornale di Sicilia alla vicenda – e in cui è rilevato che i comunisti sono stati colti «con le mani in pasta» – sono accompagnati da un editoriale dal titolo «Il Pci ha perso il pelo…» del vicedirettore responsabile Giovanni Pepi.

 

La reazione pdiessina

La requisitoria scuote il Pds. I commenti dei suoi esponenti sono indignati. Per il segretario nazionale del partito Achille Occhetto la requisitoria è «fuorviante». Luigi Colajanni, che ha guidato per un certo periodo il Pci dell’Isola, la considera frutto di «un’operazione inaudita, con il rovesciamento dei fatti». E, in relazione alla chiamata in causa personale, precisa di avere lasciato «la consulenza Italter per le pressioni politiche». Pietro Folena, il giustiziere della sospetta classe dirigente comunista siciliana, la considera sbagliata, sconcertante e «governativa».

Le recriminazioni sono accompagnate dall’intento di portare la questione in sede giudiziaria. Ma, come è avvenuto in analoghe circostanze, delle querele annunciate nessuna approda nelle aule giudiziarie. In particolare si ricordano le querele annunciate dai dirigenti del Pci quando nel 1975, dopo lo scandalo dei «fondi neri» dell’Ems, l’onorevole Ludovico Corrao, avvocato del presidente dell’Ente Graziano Verzotto, affermò che questi aveva dato soldi anche al Pci, e quando nel 1984, prima di essere arrestato, il gabelliere Nino Salvo dichiarò di avere pagato tutti i partiti compreso il Pci.

L’avvocato Alfredo Galasso (nella foto a sinistra tratta da rifondazionenichelino.blogspot.com), che ha da poco lasciato il Pci, rilancia i sospetti di contiguità tra mafia e settori del partito. «Compagni, quante ombre a Palermo», dichiara al quotidiano milanese Il Giornale di Montanelli. Nelle polemiche si intromette anche Rossitto per precisare che con le sue dichiarazioni non ha voluto attaccare un partito, ma di nutrire dubbi sulle persone. Ed è proprio questa la distinzione che i comunisti non hanno mai voluto accettare, trovando politicamente più producenti le concezioni totalizzanti. Per convenienza o per cecità ideologica, essi non hanno voluto mai intendere che a colludere con la mafia sono gli uomini e non i partiti.

 

L’attacco del Pds e della Rete a Falcone

La Rete ha da qualche anno rilevato dai comunisti la tendenza a dare centralità politica alla lotta alla mafia e la persegue con una rappresentazione liturgica che aveva indotto Leonardo Sciascia (nella foto in basso a destra tratta da ilcollediscipio.it) a definire i suoi celebranti ‘professionisti dell’antimafia’. Del resto l’insegnamento dell’ascoltato consigliere in clergyman, il gesuita Ennio Pintacuda, che «il sospetto è l’anticamera della verità», non poteva non generare fondamentalismo politico e appendici giudiziarie. Del sanguigno leader del movimento, Leoluca Orlando, non si possono disconoscere l’impegno antimafioso e i rischi personali corsi. Ormai però è divenuto il gran sacerdote della stagione giustizialista e i comunisti suoi ministranti. Egli dunque interviene a modo suo nella vicenda. Ma non per difendere la purezza del Pci-Pds quanto per criticare la sparizione dalla sentenza dei nomi di uomini politici che lui – dice – aveva fatto al magistrato, individuandoli – secondo quanto scrive la Repubblica – in «Ciancimino, Lima, Gunnella…» (7). Per Carmine Mancuso, allora militante di prima grandezza della Rete, i giudici, «tacendo sui rapporti tra la mafia e i partiti, hanno perso l’occasione per arrivare alla verità».

Gli uomini della Rete chiedono, quindi, la riapertura dell’inchiesta perché, a loro giudizio, la requisitoria «è la giustizia dimezzata», «c’è stato lo stop anche davanti a Ciancimino e non c’è un solo socialista invischiato». Replica alle critiche il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti (dc), invitando Orlando e chiunque abbia delle prove su persone e circostanze di fornirle alla magistratura (onus probandi incumbit ei qui dicit). I magistrati del pool, a loro volta, respingono le critiche sostenendo che questa volta non ci sono stati nemmeno pentiti che sostenessero supposizioni e sospetti.

Il punto più basso della polemica si ha con l’attacco diretto della Rete e del Pds a Falcone. Gli esponenti dei due partiti non esitano a esprimere insinuazioni ingenerose, che non possono trovare giustificazione neppure nel radicalismo che ispira il loro moralismo. La requisitoria, secondo Orlando, segna «la conferma del “teorema Falcone” sull’inesistenza del terzo livello e la testimonianza della normalizzazione del palazzo di giustizia». Il lemma normalizzazione al tempo è comune nel lessico politico. Nella circostanza, per estensione, assume il senso che il potere dominante è riuscito a ridurre a sottomissione e a piegare al proprio volere i giudici che hanno condotto l’inchiesta. Il giudizio di Folena sul carattere «governativo» della sentenza è altrettanto velenoso, poiché introduce il sospetto che essa possa essere collegato alla proposta al governo Andreotti del guardasigilli socialista Claudio Martelli di conferire a Falcone l’incarico di direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e giustizia. Gianni Parisi, al tempo capogruppo del Pds all’Ars, abbassa ulteriormente il livello della critica definendo la requisitoria «andreottiana-martelliana».

Nel settembre dello stesso 1991 Orlando, Galasso e Mancuso firmano un dossier nel quale attaccano frontalmente Falcone chiedendogli conto del presunto insabbiamento di molti «casi sospetti»: i rapporti tra Lima e il boss Bontade, l’omicidio Insalaco, la loggia massonica Armando Diaz, il delitto Bonsignore. Il 15 ottobre Falcone è trascinato dinnanzi al Csm perché spieghi i motivi della mancata incriminazione di Lima dopo l’accusa di Pellegriti. È nel corso di una delle sedute del consesso che, richiamando la sura del corano Pintacuda-orlandiano («il sospetto è l’anticamera della verità»), Falcone afferma che il Csm è diventato una struttura da cui il magistrato si deve guardare e che rappresenta solo un luogo di lotta politica. «Quanti danni deve ancora produrre la politicizzazione della magistratura? Non si può investire tutto e tutti nella cultura del sospetto, la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità ma l’anticamera del khomeinismo», afferma sgomento.

 

La Superprocura nazionale antimafia

È allora che Falcone sempre più delegittimato decide di accettare l’incarico del governo. Con la nomina la sequela delle ingiurie e delle accuse al magistrato non poteva che aumentare. E raggiunge l’apice quando Falcone propone l’istituzione della Procura nazionale antimafia (la cosiddetta Superprocura) come cuore del contrattacco alle cosche. Qui si arriva all’ostracismo. Una cordata di magistrati e politici di sinistra vi si oppone, manifestando il proprio dissenso nelle sedi istituzionali, sulla stampa e in pubbliche proteste. Falcone viene accusato di tradimento e megalomania. Sandro Viola su la Repubblica commenta: «Non si capisce come mai Falcone non abbandoni la magistratura. S’avverte l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi». Raffaele Bertoni, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) accusa: «La Superprocura sarà per la magistratura quello che la cupola è per la mafia. Anzi, peggio». Persino Paolo Borsellino è il primo firmatario di un documento contro l’idea di Falcone: «Gli diceva: la superprocura è fatta su misura per te, chiunque altro dovesse prenderla in mano sarebbe un’altra cosa», racconta Rita Borsellino nel volume Falcone e Borsellino scritto da Giammaria Monti. Nel 1991 la «magistratura italiana» sciopera contro la legge istitutiva della Procura nazionale antimafia destinata a Falcone.

Ciononostante, il 26 ottobre 1991 il progetto è approvato. Nasce, così, la Direzione nazionale antimafia (Dna), un organismo diretto da un procuratore nominato dal Csm. A essa si affianca la Direzione investigativa antimafia (Dia) guidata dall’Alto commissario per la lotta alla mafia, che al momento è l’ex prefetto Angelo Finocchiaro.

Perduta la prima battaglia, la coalizione radicale si muove per evitare che la nomina al vertice della Dna vada a Falcone. Le ragioni dell’opposizione sono esposte in un articolo comparso il 12 marzo 1992 sull’organo ufficiale del Pds, l’Unità, a firma di Alessandro Pizzorusso, e così riassunto nel titolo: «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché. Il principale collaboratore del ministro non dà più garanzie di indipendenza». In esso Pizzorusso afferma che «la collaborazione» fra il magistrato e il ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli si è fatta così stretta «che non si sa bene se sia il magistrato che offre la sua penna al ministro, o se sia il ministro che offre la sua copertura politica al magistrato. La prima deduzione è che fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia. […] La terza deduzione è che, se i magistrati di Unicost votassero anche in plenaria a favore di Giovanni Falcone (il che è come dire votare a favore di Martelli, protagonista di attacchi al Csm e alla magistratura), essi perderebbero consensi fra i loro colleghi che il 22 marzo debbono eleggere il comitato direttivo centrale dell’Anm». La stessa Unità poco tempo prima aveva titolato così: «Falcone preferì insabbiare tutto».

Il voltafaccia della sinistra addolora ma – è pensabile – non sorprende più di tanto il magistrato. Egli è consapevole di aver deluso lo schieramento giustizialista per avere scoperto il gioco strumentale di Pellegriti. Sa che il voltafaccia non può essere disgiunto dalla requisitoria sui delitti eccellenti, nella quale ha mostrato di non condividere l’idea della giustizia fondata sul sospetto e non sulla prova, secondo il suo credo giuridico. Sa ancora che nel 1987 lo stesso schieramento si era opposto alla sua nomina a successore di Caponnetto alla Procura generale di Palermo, facendola fallire a favore di Meli, che poi la stessa sinistra non aveva mancato di crocifiggere. Ha presenti i tanti attacchi in cui gli si contestava di «tenere nei cassetti le prove dell’asse tra mafia e politica». Come affermare – venne allora rilevato – che in quei cassetti Falcone insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Reina, Insalaco (nella foto a destra tratta da it.wikipedia.org), Bonsignore, e così via.

Niente di occasionale o di specifico, dunque, nell’avversione delle sinistre nei suoi confronti. Ma c’è modo e modo di reagire. Il tentativo di sporcarne l’immagine con l’accusa di venduto e insabbiatore di processi non può essere giustificato dal considerare come tradimento che Falcone abbia accettato l’incarico di dirigere l’Ufficio centrale affari penali. Né, tantomeno, l’impegno in un governo presieduto da Giulio Andreotti, per la cui incriminazione al tempo le sinistre si muovevano. Ma fargli il torto di pensare che accettando la nomina egli abbia perduto l’indipendenza dal potere politico è un non volere tenere conto della moralità del magistrato e della sua etica professionale.

Comunque, l’operazione delle sinistre contro la nomina di Falcone a procuratore nazionale antimafia va a buon fine. Nonostante l’appoggio dell’allora capo dello Stato e presidente del Csm Francesco Cossiga, la maggioranza dell’organo boccia Falcone e gli preferisce Antonio Cordova, una scelta peraltro poi risultata ingombrante. Non è esagerato affermare che nella circostanza si consuma la prima «esecuzione» del magistrato, quella morale. La nomina di Cordova non trova il «concerto» del Guardasigilli che assieme al collega dell’Interno, il dc Vincenzo Scotti, pensa a Paolo Borsellino. Nuova reazione. Scendono in campo per Rifondazione comunista Girolamo Tripodi e Lucio Magri accusando Martelli di volere riaprire i termini della corsa alla Superprocura, con «l’intento palese di imporre al Csm un proprio candidato “affidabile”, per assicurare al potere politico quel controllo sulle indagini di mafia che sin dall’emanazione del decreto aveva come scopo dichiarato di soggiogare il Pm a una struttura direttamente raccordata al potere politico». L’accusa, già rivolta per Falcone, stavolta colpisce, oltre ogni buona volontà, Paolo Borsellino. Poi gli eccidi di Capaci e via D’Amelio tolgono ogni incombenza agli avversari dei due magistrati. Il 30 ottobre la scelta cade su Bruno Siclari.

Il 17 dicembre 1993 Giancarlo Caselli (nella foto a sinistra tratta da magistraturademocratica.it), di area Pds, è nominato procuratore capo di Palermo. Caselli viene con la voglia di mandare in galera gli uomini pubblici collusi, senza accanirsi contro specifici settori politici. Le carte con le accuse che Falcone avrebbe nascoste non hanno storia. E non certamente per un atto di riguardo ai defunti. Caselli, peraltro, troverà materia di intervento a sinistra e non esiterà a mettere in moto l’inchiesta sulle cooperative rosse che investiranno pesantemente esponenti e settori del Pds. Nel 1999 Caselli lascerà Palermo con il compiacimento di avere mandato in galera 1768 sospetti e il rammarico di avere ottenuto l’ergastolo per 116 mafiosi e nessun politico, pur avendo avuto la possibilità di attingere alle fonti che elaboravano liste di colpevoli in attesa di reato. A testimonianza che altro è accusare, altro fornire prove certe.

Nel 1995, Luciano Violante, pur dichiarando di essere stato favorevole a Falcone, riconferma la validità delle ragioni che hanno spinto il suo partito a opporsi alla sua nomina. Queste ragioni – spiega – risiedono nel fatto che il magistrato «era direttore al Ministero e quindi il passaggio alla Superprocura sembrava un’anomalia, mentre quello da un ufficio giudiziario all’altro, come per il concorrente, era più semplice»#. Ma il comportamento usato anche nei confronti di Borsellino svuota di ogni ragione «tecnica» le «ragioni» del Pds.

Nel 1999 Emanuele Macaluso, nel saggio ‘Mafia senza identità’ edito da Marsilio, afferma che i giacobini non possono vincere la mafia e che soltanto con la buona politica si riuscirà a sconfiggere un male storico d’Italia. Nello stesso anno Macaluso accusa i ds di schizofrenia nella lotta alla mafia.

 

La vendetta della mafia

Agli insulti Falcone risponderà con il martirio. Nel primo pomeriggio del 22 maggio 1992, sull’autostrada che da Punta Raisi doveva portarlo a respirare brevemente gli affetti familiari, la mafia, pur di eliminarlo, compie una strage. Nell’attentato muoiono con il magistrato la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Resta in vita soltanto l’agente Giuseppe Costanza che viaggiava sull’automobile guidata da Falcone. La stessa sorte tocca a Paolo Borsellino che il 19 luglio muore in via D’Amelio a Palermo straziato da un’autobomba fatta esplodere dalla mafia mentre si apprestava a fare una fugace visita alla madre. Con lui periscono anche gli agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Vincenzo Lo Muti e Eddie Walter Cosina.

Dopo l’assassinio di Falcone, tutti a piangere, a recriminare e a esaltare la vittima pura del dovere. In particolare l’atteggiamento dei magistrati provoca sconcerto in quanti sono consapevoli del reale andamento delle cose. Valga per tutte la clamorosa reazione del sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Ilda Boccassini (nella foto a destra tratta da antrodellasibilla.it), che accusa i colleghi e in particolare Gherardo Colombo: «Anche voi – afferma – avete fatto morire Falcone con la vostra indifferenza, le vostre critiche. Voi che diffidate di lui. Due mesi fa ero a Salerno in assemblea dell’Anm. Non dimenticherò quel giorno. Le parole più gentili erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. E tu, Gherardo Colombo, tu che diffidavi di Giovanni che sei andato a fare al suo funerale? L’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da voi di Milano, gli avete mandato una rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi telefonò quel giorno e mi disse: “Che tristezza, non si fidano del direttore degli Affari penali”».

 

L’«appropriazione indebita» delle sinistre nel decennale dell’assassinio di Falcone

Subito dopo, le sinistre, e in primo luogo i Ds, fanno di tutto per «appropriarsi» della memoria del magistrato. Nel 2002, decennale della morte, le sinistre, con una delle consuete giravolte comportamentali, celebrano Giovanni Falcone come un eroe. È, in ogni caso, un gesto che va apprezzato, perché testimonia di un radicale cambiamento di giudizio che Falcone merita. E non solo per il suo martirio, ma come riconoscimento del suo modo di amministrare giustizia.

Però, nonostante i trascorsi, anche in questa occasione le sinistre, con in testa il diessino Luciano Violante, ex presidente della Camera, e l’esponente dei Comunisti italiani Oliviero Di Liberto, già Guardasigilli, non rinunciano al gioco politico e pretendono di verificare i titoli a celebrare «Giovanni». Forse per distrarre dall’analisi dei propri. Nel dibattito su questa pretesa, ancora una volta le critiche più aspre alle sinistre provengono dall’interno. Giuseppe Ayala (nella foto a sinistra tratta da it.wikipedia.org), deputato nazionale d’area, sollecitato dal Corriere della Sera, afferma che con Falcone hanno sbagliato tutti e che qualcuno, come la preferenza a sinistra per il concorrente all’incarico di Superprocuratore, «fu più doloroso degli altri perché proveniente dalla parte da cui meno se l’aspettava».

Su la Repubblica, ancora Ilda Boccassini rileva che in dieci anni nessuno dei colleghi e degli esponenti politici di sinistra ha pronunziato una sola parola di autocritica per i torti arrecati a Falcone. Nella sua «requisitoria» ricorda ancora che la «magistratura italiana» nel 1991 scioperò contro la legge istitutiva della Procura nazionale antimafia destinata a Falcone. E inoltre che per bloccarne la candidatura due togati di sinistra del Csm non esitarono ad accusare Falcone di essere un «venduto».

«Delle due l’una – conclude la Boccassini -. O quelle accuse erano fondate, e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza, o quelle accuse erano, come sono, calunnie, e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda».

Ma la Boccassini non si ferma qui. Allo stesso quotidiano il magistrato dichiara: «I burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni» orchestrata a suo tempo contro Giovanni Falcone affollano «le cattedrali e i convegni» quando si celebra il magistrato ucciso dieci anni fa. Come se «la sua esistenza fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzamenti nella sua eccellenza». Mentre non c’è stato un uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità».

Se non fosse banale l’idea che la mafia uccide chi è lasciato solo, qui un richiamo a certe impensabili diaspore sarebbe d’obbligo. E una domanda altrettanto doverosa. Se, come si è visto, le sinistre prima del martirio «hanno lasciato solo» Falcone, a parti invertite, quale sarebbe stata, dopo Capaci, la loro reazione nei confronti degli avversari?

 

L’uso stucchevole di Giovanni (e Paolo)

Oltre al tentativo di appropriarsi della memoria di Falcone, dopo la strage di Capaci comincia, ed è viva tuttavia, la gara a chi gli era maggiormente amico. Con essa si afferma l’uso stucchevole di «Giovanni» con cui i parenti tendono a rendere familiare il magistrato, e che amici, reali e presunti, assumono a ideale misura della loro prossimità. Una buona intenzione può essere il volere restituire a dimensione umana chi nell’esercizio del mandato ha dovuto agire in termini di codici e di giustizia e ha dovuto rifarsi ai rigori della dura lex. O quella di rendere partecipi tutti del valore del sacrificio e della testimonianza del martire. Ma l’uso insistito, che si trasforma spesso in autoreferenziale abuso, svilisce le migliori intenzioni. Lo stesso è avvenuto per «Paolo» Borsellino.

Che Falcone e Borsellino, dunque, abbiano cominciato a morire con l’attacco di Sciascia ai professionisti dell’antimafia, come a sinistra una certa vulgata ha teso ad accreditare – è una fola. Le difficoltà maggiori e le offese peggiori i due martiri le hanno incontrate nel campo che ritenevano amico.

Il 23 luglio del 2007 Rai Tre ha trasmesso in prima serata un documentario, regista Mario Turco, in cui lo scrittore e giornalista Alexander Stille, esamina il rapporto fra la mafia siciliana e la Prima Repubblica. Il filmato chiude con il seguente ammonimento: «In un altro Paese uomini che hanno fatto queste cose sarebbero stati ritenuti eroi».

Intanto sorge spontaneo sottolineare la inutilità dell’ammonimento in quanto nel nostro Paese pochissimi santi del calendario vengono celebrati alla pari nella ricorrenza della passione di Falcone e Borsellino. Piuttosto si potrebbe dire che in un altro Paese chi consapevolmente tace sull’ostruzionismo delle sinistre radicali a Falcone e Borsellino non avrebbe cittadinanza nel campo della storiografia o del giornalismo d’indagine.

 

(1) Volume scritto in collaborazione con Marcelle Padovani, Rcs Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano

(2) Chinnici era stato ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983.

(3) Siciliano di origine, (era nato a Caltanissetta il 5 settembre del 1920), a dieci anni Caponnetto si trasferisce a Firenze, dove passa la prima giovinezza, compie gli studi e si avvia alla carriera nella magistratura, amministrando giustizia soltanto in Toscana. Ottiene il primo incarico nel 1954, come pretore a Pistoia; lavora quindi per tredici anni alla Procura della Repubblica di Firenze; è giudice di sorveglianza ancora a Firenze, e nel 1979 è assegnato alla Procura generale di quella città. Antonino Caponnetto è stato considerato da sempre e da tutti un galantuomo. Credente, è mite, gentile e colto (sul comodino della stanza da letto teneva e meditava sulle Confessioni di Sant’Agostino e la Recherche di Marcel Proust). Timido e fragile all’apparenza era interiormente un combattente deciso, coraggioso e saggio. Quando arriva a Palermo, è praticamente sconosciuto nella sua Sicilia.

(4) La Paciotti assumerà successivamente l’incarico di presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed in atto è deputato europeo dei Democratici di sinistra.

(5) Magistrato, Luciano Violante è stato deputato del Pci dal 1979, poi del Pds e dei Ds, presidente della Commissione antimafia (1993-1996) e della Camera dei deputati (1996-2001). Dal 2001 al 2006 è stato capogruppo dei Ds.

(6) Come mandanti di tutti e tre gli omicidi, secondo il teorema Buscetta, sono indicati i componenti della Cupola: Salvatore Riina; Michele Greco; Bernardo Provenzano; Pippo Calò; Bernardo Brusca; Francesco Madonia. Come esecutori materiali dei singoli delitti le richieste di rinvio a giudizio riguardano Nenè Geraci (Michele Reina, 9 marzo 1979) e Rosario Riccobono (scomparso); Pino Greco «Scarpuzzedda» (Pio La Torre, 30 aprile 1982); i terroristi neri Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini  (Piersanti Mattarella, 6 gennaio 1980).

(7) Cfr. l’edizione del 14 marzo 1991. Aristide Gunnella era il segretario regionale del Pri. A conferma della superiorità con cui Orlando tratta gli stessi comunisti, alle elezioni regionali di qualche mese dopo (giugno 1991), riapre la questione morale a sinistra, e afferma che «se arriva un avviso di garanzia è giusto che Occhetto e D’Alema si ritirino. Cfr. Corriere della Sera, Milano 18 marzo 1991.

Foto di Antonino Caponnetto tratta da

globalocale.net /

Foto di Luciano Violante tratta da bennycalasanzio.com

 

 

Foto di Piersanti Mattarella tratta da t-it.facebook.com

 


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