Dieci anni fa l'Unesco ha deciso di celebrare ogni anno il mezzo di comunicazione per eccellenza, sopravvissuto a epoche, cambiamenti e concorrenza. Noi ne approfittiamo per raccontarvi di più della nuova casa di MeridioNews
Giornata mondiale della radio: il futuro tra on air e on line Formosa (Rmb): «Più che la simpatia, servirà l’informazione»
Informazione, collaborazione, speranza. Sono le tre parole con cui a gennaio abbiamo annunciato il nuovo percorso di MeridioNews a fianco della tv SestaRete all’interno del gruppo radiofonico Rmb. Un progetto ancora in costruzione di cui avevamo promesso di raccontarvi qualcosa in più. Così oggi, in occasione della giornata mondiale della radio, vi proponiamo una chiacchierata con Fabio Formosa, direttore artistico del gruppo Rmb e tra le voci storiche di Catania.
La comunicazione tutta ha vissuto e vive una rivoluzione. In questo contesto, com’è cambiato un mezzo tradizionale come la radio?
«Più che la radio in sé, a cambiare davvero sono stati il linguaggio e la tecnica comunicativa. Una volta serviva avere competenze, dalla dizione alla cultura musicale. Poi, intorno agli anni 2000, si è iniziato a introdurre in radio i personaggi della tv e della comicità, sposando progetti che portavano più ascoltatori e quindi maggiori riscontri economici. Questo ha inevitabilmente abbassato la qualità: i provini in cui dovevi dimostrare di saper leggere e commentare un articolo di cinque pagine in 30 secondi sono diventati inutili, a vantaggio del carisma comunicativo».
Si poteva evitare?
«È un sistema che non giudico e che io stesso ho contribuito a sviluppare: è semplice, in quel periodo era così, erano le regole del gioco. È difficile far quadrare quello che il pubblico vuole con quella che vorrebbe essere la tua proposta e, ancora di più, con le necessità di chi investe. Chi è il pazzo che rischia i propri soldi? Io non ne ho conosciuti».
E così si è arrivati fino a ieri. Perché oggi il Covid-19 e i conseguenti lockdown hanno di nuovo mischiato le carte. Vale anche per la radio?
«La pandemia ha creato selezione: chi continuava ad aspettarsi simpatia e babbìo è rimasto deluso. Il pubblico, anche involontariamente, ha capito di avere bisogno di informazione e questo ci ha fornito la risposta a una domanda importante: quale può essere il valore aggiunto delle radio? Di certo non più la musica, che ormai puoi ascoltare ovunque. E nemmeno l’intrattenimento, che usura gli stessi personaggi con un necessario ricambio quasi annuale. Solo l’informazione, specie se locale, può davvero coinvolgere ancora la gente, ma servono contenuti. Neanche la qualità del suono sembra avere più importanza: gli ascoltatori non badano più ad acustica e timbri, la cui cura viene anzi percepita come vecchia e poco autentica».
Coniugare qualità e sostenibilità economica è una sfida sempreverde nel mondo dei media. Nonostante la necessità di nuotare in questo mare agitato, c’è qualcosa in particolare di cui vai fiero?
«Da più parti mi si accusa di aver snaturato la radio a favore dell’aspetto commerciale. La mia risposta è sempre stata semplice: non solo con questo mestiere ho deciso di camparci, ma ho deciso che avrebbero dovuto camparci anche gli altri. Credo sia questo il contributo che, nel mio piccolo, ho dato a questa città: ho fatto in modo che tanti giovani potessero comunicare e farlo diventare un mestiere. E di questo vado molto fiero».
Oggi è ancora possibile?
«D’istinto direi che le condizioni per dare sicurezza lavorativa non ci sono più. Ma, in realtà, anche prima era solo una questione di coraggio e anzi oggi, rispetto a una volta, le aziende radiofoniche hanno forme e strutture che potrebbero consentirlo».
Manca forse la materia prima?
«Non c’è ricambio, questo sì. La generazione di mezzo tra analogico e digitale non si è formata in radio e nemmeno nell’informazione. La nota positiva è che, rispetto a 5 o 6 anni fa, vedo tanti giovani che mostrano interesse, solo che sono poco disposti a fare gavetta e non è nemmeno colpa loro: sono abituati alla logica del tutto e subito, vivono con tempi diversi, dalle lezioni a scuola alla visione di un film, una continua sintesi che lascia poco tempo per metabolizzare. Anche in questo caso, non so dire se sia meglio o peggio, è semplicemente così».
Senza la pretesa di voler fare gli indovini, ma con la necessità di progettare: cosa ne sarà delle radio e dei media tra altri dieci anni?
«Sono convinto che l’unica strada da seguire per sopravvivere sia l’integrazione tra radio, televisione, web e social. Con un linguaggio comune, che non significa snaturare il singolo media. Per capirci, io non condivido chi dice “La radio dovrebbe essere più social”. Come si fa? La radio è radio, e i social restano social. Piuttosto che cambiare il mezzo, interagiamo tra noi e allarghiamo l’offerta di informazione al pubblico».