Antonio Condorelli, collaboratore catanese di Report, ci racconta come nasce uninchiesta televisiva su Catania. «se racconti la verità, se dimostri di saperla bene e fino in fondo, sei tutelato dallo stesso tuo lavoro»
Giornalismo dinchiesta, un mestiere difficile
L’inchiesta di Report che ha scosso Catania, firmata da Sigfrido Ranucci, è stata realizzata anche con il contributo di un giovane giornalista catanese di 28 anni, Antonio Condorelli. Step1 lo ha incontrato per conoscere meglio la sua visione della città, ma soprattutto per capire più a fondo come funziona e si costruisce un’inchiesta complessa come quella di Report.
Con quale spirito e con quale criterio hai segnalato le notizie in tuo possesso su Catania alla redazione di Report? Come lavora un collaboratore locale di una trasmissione come questa?
Avevo a che fare con una persona libera come Ranucci, in grado di raccontare quello che sa sulla base di documenti e informazioni, e che non si ferma certo davanti alla telefonata di un politico. Sigfrido, inoltre, è uno che lavora dodici ore al giorno. Un requisito senza cui non potrebbe esistere né una trasmissione come Report né un’inchiesta giornalistica.
Vista da un giornalista catanese, come appare questa città? Cosa offre in termini di approfondimento?
È una città con un intreccio complicatissimo, in cui c’è molto da raccontare. Chi si è scandalizzato per ciò che è uscito in quei sessanta minuti o non sa o fa finta di non sapere. Come negli anni Ottanta o Novanta, tra politica ed imprenditoria c’è un rapporto strettissimo che ha nomi e cognomi. E questo meccanismo non produce affatto sviluppo, come molti dicono. Al contrario.
Facciamo qualche esempio?
La seconda stazione appaltante in Sicilia, ovvero la Ferrovia Circumetnea, ha fatto a Catania poco più di tre chilometri di tracciato. Non so se i catanesi sanno cosa comportano le varianti attualmente in corso; l’importo originario dei lavori, in dieci anni, è quasi triplicato. E ci sono anche situazioni paradossali. Nel caso dei parcheggi sotterranei ci sono, alla direzione dei lavori o nelle commissioni di valutazione, dei funzionari che sono anche collaudatori delle tracce della Fce. Funzionari che, nel caso del parcheggio “Africa” non si sono accorti di una sovrapposizione di tubature tra la galleria della Circum e il parcheggio. O ancora: quando è stato realizzato l’edificio che adesso ospita il call-center Fastweb (opera per la quale c’è il rinvio a giudizio di funzionari del Comune), nessuno si è accorto, restaurando l’edificio, che le fondamenta interferivano con la struttura della metropolitana in costruzione. Poi ci sono i casi di intreccio tra mafia, politica e imprenditoria. Basta andare a guardare le carte dell’ospedale Garibaldi, vedere chi sono le persone che hanno preso prescrizioni, quali reati sono stati prescritti, chi è stato condannato… Ma a Catania non parlarne fa comodo. A destra come a sinistra.
Una delle critiche mosse a Report è stata quella di non aver parlato del Palazzo di Giustizia di Catania.
È un tema complesso. Forse bisognerebbe parlare di storia della magistratura catanese e non è una cosa facile. Ma in questo momento c’è un’accelerazione e una serie di indagini che non si erano mai viste in questa città. E ricordiamo che la Procura di Catania ha un organico fortemente sottodimensionato (meno della metà degli procuratori di Palermo). E qui c’è oggi il baricentro politico di tutta la Sicilia, se non del Sud Italia. Leggere gli atti giudiziari può portare a delle grandi sorprese. Del processo sulla festa di Sant’Agata ben pochi erano a conoscenza, prima del servizio di Report. Ben pochi sapevano la storia di un Mangion che entra a far parte del Circolo Sant’Agata e all’improvviso restaura tutta la sede.
Un tema che ha fatto molto discutere in città è stato quello del patto tra la Repubblica e l’editore Ciancio…
Si tratta di un caso emblematico: probabilmente a Repubblica eliminare le pagine siciliane costa più di quanto costerebbe mandarle in edicola. Ma penso anche che l’arrivo di una redazione di Repubblica qui o la distribuzione del foglio siciliano non cambierebbe molto le cose in città.
Quanto il monopolio dell’informazione influisce sui problemi generali della città?
Influisce tantissimo, in una società che basa tutto sulla comunicazione, se un fatto non viene raccontato non esiste. Se andate a controllare la rassegna stampa de La Sicilia degli ultimi anni, noterete che, dopo la notizia del primo disavanzo di circa 40 milioni del Comune nel novembre 2004, esce un inserto giornalistico che parla delle eccellenze di Catania. Ma il problema non è il monopolio dell’informazione in sé, quanto il sistema che ha permesso la sua creazione: da un lato c’è Ciancio che fa l’editore, dall’altro ci sono le persone che sognano di apparire di continuo sul giornale e che, grazie anche al modo con cui appaiono, costruiscono la loro carriera politica.
Ma cosa c’è fuori dal monopolio? La “controinformazione”?
No, penso che dovrebbe esistere soltanto l’informazione, che è una cosa sacra. A Catania ci sono tante piccole realtà importanti, fatte da persone che mettono mano al proprio portafogli e che si autofinanziano. Questo è un segnale forte. Ma il fatto che ci siano tante voci non è una cosa positiva: dovrebbe essercene una forte e unitaria. Ma certo non è semplice.
Parliamo ora del tuo metodo di lavoro. Come si fa il videogiornalismo? Con quali attrezzature lavori?
Ho una telecamera che mi è costata mille euro un microfono scadente – per questo l’audio viene male – e ogni tanto affitto qualche attrezzatura o me la prestano. Ma più che i mezzi sono importanti i contenuti, perché l’audio lo puoi sempre sistemare; è importante tentare di raccontare e di cogliere l’attimo.
In percentuale quanto è andato in onda del tuo girato significativo e perché?
Pensate che sono state fatte almeno settanta ore di girato. C’è molto altro da raccontare, rispetto a quanto è andato in onda. Non so se di questo, però, saranno contenti o scontenti i catanesi.
Le piccole realtà di inchiesta a livello locale hanno spazio? Quanto è possibile fare inchiesta senza avere le spalle coperte come alla Rai?
Io non sono un giornalista Rai. Le spalle coperte un giornalista le può avere se ha la certezza di quello che dice. Se dici il falso te ne assumi la responsabilità. Ma se racconti la verità, se dimostri di saperla bene e fino in fondo, sei tutelato dallo stesso lavoro che hai fatto.
Ti definisci un giornalista indipendente. Cosa significa?
Ho 28 anni, spesso guadagno 300-400 euro al mese. Essere un giornalista indipendente significa che nessuno ti dirà cosa devi o non devi fare. È una scelta di vita, e se vogliamo anche una scelta culturale. Ma il prezzo da pagare può essere un futuro molto incerto. Per me sarebbe già qualcosa dire di avere un lavoro precario…
Prima di approdare a Report, hai provato a lavorare in altre realtà?
Ho iniziato quattro anni fa e ho fatto il giro di tutte le redazioni, ma non ho trovato una porta aperta a Catania, tranne da Paesi Etnei Oggi (un mensile provinciale). Dopo qualche mese dopo ho iniziato con il Quotidiano di Sicilia , con il settimanale Centonove e L’Espresso.
Oggi il mestiere di giornalista si fa spesso stando seduti a un computer, cucinando le notizie che altri hanno prodotto. Il modello di Report è completamente diverso. Pensi che abbia un futuro questo modello?
Il giornalismo d’inchiesta andrà avanti finché ci saranno persone che hanno interesse a sapere come vanno le cose, però è chiaro che in Italia è la cosa più pericolosa che possa esistere. Lo dimostra, a Catania, la vicenda di Pippo Fava. È difficile per un giornalista non finire sul libro paga di qualcuno. E questo rischio esiste per chi si sente di destra e per chi si sente di sinistra. Dopo la messa in onda dell’inchiesta di Report i politici di entrambi gli schieramenti sembrano aver fatto quadrato, tuonando contro chi ha raccontato le cose. Anche se non potevano negarle. Questo è un problema, in questa città, soprattutto per l’opposizione. Non è un caso se oggi la destra ha quasi il 90% e il centrosinistra meno del 15%. E il centrosinistra, disastro dopo disastro, non cambia i suoi dirigenti. In questo quadro non si può pensare che il giornalismo d’inchiesta come a una soluzione. I siciliani devono ribellarsi. Altrimenti possiamo continuare a fare inchieste, ma non risolveremo nulla, se la gente preferirà che tutto resti com’è.