«Io mafioso? Non è vero, ho sempre lavorato». Ma a chi sottolinea gli ambienti poco raccomandabili che circondano la musica neo melodica - raccontanti anche dal pentito Salvatore Giordano - risponde: «Purtroppo non do loro torto». Guarda il video
Gianni Celeste, il cantore del ventre della Sicilia Un dialogo su mafia, dediche e soldi pubblici
Quando acchiana sul al palco, in una delle centinaia di borgate popolare del Sud Italia pronte ad accoglierlo ogni anno, Gianni Celeste è venerato come una rock star. E nessuno fa caso a quei giochi d’artificio, simbolo pirotecnico dello spreco. In fondo, quel frastuono, non è altro che l’eco sinistro di una quotidianità segnata da pane e violenza, revolver e devozione religiosa. Gianni Celeste è il cantore degli ultimi, dei diseredati, dei precari, del ventre della Sicilia, ma anche della manovalanza che nutre le mafie di tutto il Sud Italia. Non è colpa sua, ma è innegabile che il suo pubblico sia quello. Celeste non sarà mai nelle classifiche delle pop star, mai una copertina patinata gli verrà dedicata agli Mtv Awards. Nel grande mare della Rete, tra social network e album, Celeste è il colore e il suono del successo. Youtube è assediato dai suo videoclip e dalle sue performance. Canta in partenopeo, slang neo melodico da tutti compreso lungo la cortina che segna l’Italia a sud di Napoli.
Quest’estate la sua musica è stata protagonista a Palermo, durante la settimana dedicata alla sua patrona, Santa Rosalia. Luminarie, processioni e cammini verso il santuario della santuzza a Monte Pellegrino. La fede è preziosa per il popolo palermitano. Soprattutto per quelli che «l’unica ricchezza è la preghiera». Immancabili le feste nei sobborghi, organizzate dai comitati e dalle confraternite di quartiere. Ed è proprio lì che Gianni Celeste si è esibito. Guadagna e Il Capo gli ultimi due quartieri popolari in ordine cronologico di serate. Proprio le stesse borgate che ispirano i testi del cantante neo melodico e al centro dei racconti del collaboratore di giustizia Salvatore Giordano. Gli stessi rioni in cui si esibiva Filiberto Palermo, cantante neo melodico meglio conosciuto come Gianni Clemente, arrestato ieri durante l’operazione Zafiro per la sua presunta vicinanza a Cosa nostra.
Più volte al centro delle polemiche, perché considerati vicini ad ambienti poco raccomandabili. «Purtroppo non do loro torto – risponde il cantante – Alcune generazioni hanno sporcato questa musica, facendo delle melodie con brani malavitosi, dando un’immagine sbagliata della canzone napoletana. Anche io affronto queste tematiche, ma lo faccio con parole pulite e raffinate. Non per forza devi parlare di manette o cella». Un altro aspetto dei concerti nei quartieri popolari è poi il rischio di essere ritratto con qualche pregiudicato nelle foto scattate durante le serate. «Ma come faccio a sapere con chi sto facendo la foto?», si difende Celeste.
L’artista, come molti della musica napoletana, tempo fa è stato contestato a seguito di alcuni saluti dal palco. Imbarazzanti per la stampa, ma voluti dalle piazze. Il 21 settembre del 2012, in provincia di Palermo, esattamente a Belmonte Mezzagno, il cantante ha dedicato il brano U’ latitante a «coloro che non possono essere presenti e agli ammalati». Subito è scattata la polemica sul web per quella dedica che alcuni hanno interpretato come un gentile pensiero ai carcerati, ma anche a un latitante di spessore che, appunto, non poteva essere presente. In quei tempi era ancora ricercato dai Carabinieri Antonino Messicati Vitale, accusato di essere il capo mandamento della famiglia di Villabate. Arrestato qualche mese dopo a Bali, in Indonesia. La piazza dopo il concerto si è subito divisa tra chi ha sentito e dice di aver capito bene tenore e destinatario della dedica, e chi giura di non aver sentito proprio nulla. Tra questi, i carabinieri e il sindaco, che gridava alla «pretestuosa polemica». «Ho smesso da tempo di fare saluti che possono causare polemiche dopo i miei concerti – afferma Celeste – Ogni volta che salgo sul palco mi consegnano moltissimi messaggi su carta da dover dire al microfono. Qualche dedica devo pur farla».
Esiste un pentito che ha acceso i riflettori su feste di quartiere, famiglie mafiose e musica napoletana. Il suo nome è Salvatore Giordano, esponente della famiglia mafiosa dello Zen ed ex intermediario, sul territorio di Palermo, del cantante neo melodico Mauro Nardi. Nei suoi racconti, Giordano spiega ai magistrati della procura di Palermo che parte del ricavato delle serate deve andare alla mafia: «Se noi prendiamo per esempio 100mila euro, un poco devono andare alla mafia e un po’ vanno alla festa. Si deve fare per i carcerati. È così che funziona». L’ex esponente dello Zen racconta anche dei pagamenti che la malavita ha compiuto nei confronti di Mauro Nardi durante una delle feste popolari al quartiere Uditore nel 2009. «Dopo 30 anni, l’Uditore stava organizzando una festa di piazza – continua il collaboratore – Siccome io rappresentavo Mauro Nardi su Palermo, ero venuto a fare… Io ero il manager di Mauro Nardi, i soldi io li dovevo contrattare prima. Il prezzo da pagare era di novemila euro, già avevano dato duemila euro di acconto precedentemente, la rimanenza erano novemila».
Il pentito racconta ai pm di un pomeriggio fatto di incontri e accordi per le strade del quartiere, per definire i metodi di pagamento. Protagonisti della contrattazione: Giordano stesso, Luigi Giardina – che ha curato la latitanza del boss Gianni Nicchi – e Alessandro Costa, oggi a piede libero dopo 15 mesi nel penitenziario di Tolmezzo. Costa, per il Tribunale di Palermo, è un «elemento di spicco della famiglia mafiosa dell’Uditore e braccio destro dell’ex latitante». Stando alle parole di Giordano, anche i soldi che la Regione Siciliana o il Comune stanziava anni fa per le feste di borgata «finivano nelle tasche della mafia, invece che in quelle delle confraternite religiose o dei comitati organizzativi». Situazioni di criminalità che la Sicilia conosce. Come potrebbe immaginarle Gianni Celeste, che alla domanda «Se le dessero del mafioso si offenderebbe?», risponde: «Sì, certo, io ho sempre lavorato».