Gianfranco Marrone, saggista e professore ordinario di Semiotica all’Università di Palermo racconta il suo collega e amico Umberto Eco, scomparso questa notte all’età di 84 anni. Dal primo incontro nel capoluogo siciliano all’eredità che lascia, non solo agli accademici, ma a tutto il Paese.
Cosa mancherà all’Italia da oggi?
Con la scomparsa di Umberto Eco ci mancherà soprattutto la sua lucidità, che non è soltanto la capacità di capire e guardare più avanti di altri, ma soprattutto la forza di saper mescolare le carte. Umberto era tante cose, era un semiologo, un professore universitario, un giornalista, uno scrittore, un uomo di editoria; e lui riusciva a far giocare felicemente tra loro tutte queste professionalità come le sponde di un biliardo. Fare filosofia e scrivere romanzi, per esempio, erano attività complementari, così come essere un critico letterario o scrivere di politica sui giornali. Questa era una maniera per abbattere le barriere delle istituzioni del sapere, non per il banale gusto di farlo ma per farle crescere ognuna grazie all’altra. Ad esempio, tutti i suoi romanzi sono molto divertenti e avvincenti, spesso sono dei polizieschi, ma hanno anche una grande profondità filosofica; parallelamente suoi testi di semiotica sono anche divertenti. Notoriamente Umberto era un grande raccontatore di barzellette, riusciva a parlare di Kant e insieme a raccontare delle barzellette; non a caso è stato il curatore del Trattato delle barzellette di Achille Campanile.
Qual è il ricordo più caro che ha legato ad Umberto Eco?
La prima e l’ultima volta che ci siamo incontrati, sono due momenti a me molto cari. La prima volta fu alla fine del 1980, quando venne a Palermo per inaugurare un convegno di semiotica e io ero uno studente al secondo anno: ricordo che disse una cosa che mi rimase profondamente impressa, riuscì a spiegare come il segno è stato rimosso dal dibattito occidentale così come è successo nella società per la donna o i neri, gli altri insomma. Quello stesso giorno nel pomeriggio Eco andò da Flaccovio a presentare il suo nuovo libro Il nome della rosa. Quel giorno fu la prima volta che lo vidi e lo sentii parlare, ed era molto strano vedere un professore universitario che scriveva anche romanzi, a quei tempi era una cosa inusuale. L’ultima volta che l’ho visto è stato in settembre scorso a Camogli, al Festival della Comunicazione, dove mi aveva invitato; stava già molto male, ma si alzò dalla stanza delle colazioni e venne zoppicando ad ascoltare il mio intervento. A quasi quarant’anni di distanza, i ruoli si erano invertiti e per me fu molto importante vederlo là in prima fila ad ascoltarmi. Lui fu un maestro di vita non solo un maestro di pensiero.
Con la sua scomparsa la semiotica cosa ha perso?
Ha perso il suo più grande maestro e rappresentane e ci lascia un’eredità difficile e complicata che raccoglieremo come una sfida. Mancherà molto il suo modo di guardare il mondo in modo critico e al contempo divertente. Senza di lui sarà dura. Mi ha sconvolto apprendere della sua morte, sapevo che stava male ma nonostante questo è un colpo durissimo.
Quando ai suoi alunni spiegherà chi era Umberto Eco cosa dirà?
Cercherò di raccontare il suo più grande insegnamento e cioè la capacità di non intendere lo studio separato dalla vita. Lui ci ha insegnato che lo studio non è solo un diritto ma anche un piacere. La sua più grande lotta non era contro l’ignoranza ma contro la stupidità.
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