Gas, al via la shale revolution

Sperimentato già negli Anni ‘40 del secolo passato negli Usa è diventata in 10 anni l’arma segreta per arrivare all’indipendenza energetica. Di scena la tecnica per l’estrazione di gas non convenzionale nota come fracking (hydraulic fracturing, ossia la fatturazione idraulica realizzata attraverso la pressione di un fluido per creare e propagare una frattura in uno strato roccioso). Una tecnica che si è sviluppata Oltreoceano a partire dagli Anni ‘70 e, con Barack Obama alla Casa Bianca, ha segnato il suo apice: tant’è vero che i prezzi del gas sono crollati.

Ora la rivoluzione del fracking arriva in Europa e tocca anche al Vecchio Continente misurarsi con gli effetti taumaturgici dell’estrazione dell’oro azzurro e dei suoi danni collaterali. Con il fracking vengono infatti pompati nel terreno acqua ed elementi chimici per recuperare gas o petrolio da scisti bituminosi. I pericoli, esagerati dagli ambientalisti o minimizzati dai colossi energetici, vanno dalla contaminazione di terreni e falde acquifere sino ai miniterremoti.

La questione, però, non riguarda tanto e solo gli aspetti economici ed ecologici: alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i primi di febbraio, il tema è stato discusso in primis dal punto di vista geopolitico. Perché le conseguenze della rivoluzione made in Usa potrebbero farsi sentire negli equilibri mondiali e mettere in crisi chi, sul gas, ha costruito la propria potenza. La Russia in primis.

Questa, in soldoni, la tesi di chi vede radicali cambiamenti alle porte: il gas estratto con il fracking negli Stati Uniti, i prezzi in ribasso pronti a contagiare gli altri mercati e la prospettiva di non dover dipendere dalle importazioni metterebbero in crisi il regno di Vladimir Putin. Se la nuova tecnica si diffondesse in Europa potrebbe mandare in pensione il colosso energetico Gazprom.

Ma nei guai finirebbero anche i produttori del Golfo che si ritroverebbero a ridefinire la propria posizione sullo scacchiere geoeconomico: un riposizionamento inevitabile non appena gli Usa dovessero potere fare a meno dell’energia in arrivo dal Medio Oriente.

Lo scenario, pieno di se e di ma, è sostenuto da un recente rapporto della IEA (International Energy agency), secondo cui – il condizionale è d’obbligo – Washington potrebbe diventare, grazie al fracking, il primo produttore di gas e petrolio nei prossimi cinque anni, fino a raggiungere l’indipendenza nell’arco di un quindicennio.

Le previsioni sono però tutte da verificare e i dubbi legati alla rivoluzionaria tecnica sono molti. Soprattutto in quell’Europa, dove a livello teorico si potrebbe approfittare della novità. Al di là della propaganda che veleggia gonfiata dalle lobby, gli analisti indipendenti sono molto cauti e i miracoli del fracking vengono relativizzati.

Secondo un’indagine condotta dal tedesco Zew (Centro per la ricerca economica europea) e resa nota a fine gennaio, il fracking sarebbe vantaggioso in Europa dal punto di vista economico solo se i prezzi del gas fossero circa il doppio di quelli attuali: perché ai costi elevati di estrazione si aggiungono quelli ambientali, ancora non sufficientemente analizzati.

Alle attuali quotazioni, il miracolo Usa non sarebbe ripetibile a casa nostra. Anche perché in Europa l’attenzione all’ambiente impone cautela, che si traduce in leggi e divieti.

La Germania, come solito, è uno dei Paesi dell’Unione che con maggiore attenzione sta analizzando il problema: uno studio del Ministero dell’Ambiente tedesco, pubblicato alla fine del 2012, ha esaminato le conseguenze ecologiche del fracking, valutandone le insidie e imponendo una serie di obblighi nel caso di utilizzo.

All’inizio di febbraio il Bundesrat si è espresso per severi controlli e per l’imposizione di un divieto sino a che non siano chiarite le minacce per l’ambiente. Non sono solo gli integralisti verdi che si schierano contro le trivellazioni, ma anche la politica che vede la necessità di maggiori garanzie rispetto a quelle che sono richieste negli Stati Uniti.

Il compito difficile è appunto quello di mediare tra il dovere della tutela ambientale e la spinta dell’industria del settore. Così, come la Germania, hanno fin’ora alzato paletti un po’ tutti i Governi dell’Ue, soprattutto quelli occidentali, mentre nell’Est Europa la tecnica è vista come una possibilità anche per attrarre velocemente capitali dall’estero: i giganti dell’energia, da Exxon, Mobile a Shell passando anche per l’Eni, nell’ultimo biennio si sono gettati tra Polonia, Romania e anche Ucraina, dove i giacimenti di gas di scisto sono i maggiori del Continente.

Anche a Est, però, dopo le prime concessioni ottenute senza troppi problemi, sono iniziati i fastidi con le proteste della popolazione locale, preoccupata per le sorti del territorio. Sono dei primi di febbraio le manifestazioni a Strzeszewo, nei pressi di Danzica, contro Conoco-Philips e quelle già preannunciate in Ucraina contro le prime trivellazioni programmate da Chevron nella regione di Leopoli.

La rivoluzione del fracking in Europa è appena iniziata, ma è ancora da vedere se e come proseguirà. Per l’economia americana ha significato energia a basso costo e minori emissioni. Un vantaggio competitivo sulle industrie europee, come ha ricordato a maggio anche il Consiglio Ue. Con tanto di beffa climatica: col gas low cost che ha sostituito il carbone nella generazione elettrica, Washington, da sempre refrattaria ad accordi internazionali sull’anidride carbonica, può vantare oggi una flessione delle emissioni di Co2 che non è riuscita alla più verde Bruxelles (un risultato, sostengono però i detrattori, vanificato dalla dispersione di metano in atmosfera durante le perforazioni, tra il 3,6 e il 7,9% del metano estratto secondo uno studio della Cornell University).

L’eco della shale revolution è arrivata forte anche al di qua dell’Atlantico. Il primo effetto è stato indiretto: l’azzeramento di fatto delle importazioni Usa ha dirottato le navi da Gnl lì destinate verso l’Europa. Dove hanno contribuito ad abbassare i prezzi sui mercati a breve (spot), già inondati di offerta per la crisi economica, e a mettere fuori mercato i grandi contratti take or pay con Russia e Algeria.

Un effetto diretto potrebbe poi arrivare a breve: il boom produttivo ha creato le condizioni per esportare gas naturale. Il Governo americano, pressato dall’industria manifatturiera che teme rialzi sui prezzi interni dell’energia, ha a lungo rinviato una decisione, ma sembra ormai orientato a concedere nuove autorizzazioni all’export.

Due impianti hanno già avuto il via libera e il presidente Barack Obama ha annunciato che gli Usa diventeranno un esportatore netto nel 2020.

Per l’Europa è una buona notizia? Senza dubbio per alcuni mercati nazionali storicamente isolati e solo di recente aperti alla competizione, come l’Italia, l’accesso al mercato statunitense può rappresentare un’occasione ulteriore per diversificare le fonti.

Quanto al prezzo, però, circolano attese eccessive. Uno studio dell’Oxford Institute for Energy Studies ha mostrato che una volta conteggiati i costi di liquefazione e trasporto, lo shale gas americano non è poi così conveniente per l’Europa. E smette di esserlo con prezzi allo Henry Hub tra 5 e 7 dollari per Mmbtu, un livello non così distante dall’attuale. Insomma per la UE l’unico vantaggio vero sarebbe poter estrarre shale gas direttamente in casa propria. Ma è praticabile?

Secondo recenti stime dell’ Energy Information Administration americana in UE ci sono riserve di shale gas per circa 13.300 miliardi di metri cubi, pari a circa 30 anni di consumi europei, per il 60 per cento concentrate in Polonia e Francia.

Finora il gas non convenzionale in Europa ha fatto pochi passi avanti. Non solo per ragioni tecniche – è di pochi mesi fa la rinuncia di tre compagnie, tra cui Exxon a sviluppare i giacimenti polacchi per difficoltà geologiche e regolatorie – ma anche e soprattutto, come già ricordato, per problemi ambientali. Che hanno indotto la Francia a metterlo al bando già nel 2011 e anche in Italia, dove pure le riserve sono minime e si contano solo due progetti, creano grande apprensione.

 


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