Le intercettazioni contribuiscono a disvelare «l’ambiente» in cui cresce e si sviluppa l’inchiesta Garbage affair della procura di Catania. Una microspia capta una conversazione tra una donna e l’imprenditore romano e proprietario di Ecocar Antonio Deodati, in carcere con le accuse di turbata libertà degli incanti e corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. L’uomo snocciola i numeri del servizio di raccolta rifiuti svolto a Catania dalla sua azienda e da Senesi. Deodati parla proprio dell’amministratore delegato di Senesi, Rodolfo Briganti: «Oh, ma a questo ridevano gli occhi […], tu compà fai il capogruppo, ti ho dato il 50 per cento di tre milioni 250mila euro al mese, eh». Parole che sembrano confermare quanto dichiarato dal procuratore capo Carmelo Zuccaro sui rapporti di forza tra le due ditte, ovvero: sebbene Senesi fosse capogruppo del consorzio, le decisione le avrebbe prese Ecocar. «Non gli pareva vero – prosegue Deodati -. Se non eravamo noi ma quando vinceva? Da solo non la vinci in questa gara».
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, a garantire l’assegnazione e le successive proroghe del servizio al consorzio Seneco è stato Orazio Fazio, responsabile dei Servizi esternalizzati della direzione comunale Ecologia, arrestato con le stesse accuse di Deodati. Come hanno spiegato i magistrati in conferenza stampa, Fazio avrebbe cercato di disinnescare le sanzioni per il mancato o impreciso svolgimento del servizio di raccolta dei rifiuti. Sanzioni che hanno una duplice funzione: non solo punire sul piano economico le due aziende per le loro mancanze, ma anche estrometterle dalle gare successive. Al telefono con un ispettore ecologico, Fazio sembra cercare di evitare una penalità alle ditte. «Non gli scriva disservizio, la prego», dice. Davanti alle resistenze del dirimpettaio, insiste: «Lei vada via, mi assumo io la responsabilità». «Me ne vado? Così arrestano me!», risponde l’ispettore. Ma Fazio non molla: «Arrestano me, non si preoccupi, non ne ho rubato soldi, né lei e neanche io». Profetico, si direbbe. Ma il dipendente comunale rimane perplesso. Così il dirigente taglia corto: «Non si preoccupi che non succede niente, ci sono io».
C’è lui anche al centro di una telefonata intercorsa tra Deodati e Antonio Natoli, dirigente del consorzio Seneco agli arresti domiciliari per corruzione, interdetto per un anno da incarichi direttivi. «Quello – avverte Natoli – mi ha chiesto un computer, che devo fare?». Deodati si infastidisce: «Ha rotto il cazzo Orazio!». «Un computer e un telefono – aggiunge Natoli – ma scusa ma ci hai (Fazio, ndr) una bella faccia di cazzo, dice “mi serve per mio nipote”, ma io dove cazzo lo prendo il computer?». «Adesso non è andato in villeggiatura? Ti faccio vedere la fattura io!», si spazientisce l’imprenditore romano. Per poi impartire indicazioni al dipendente: far finta di aver dimenticato di chiedere. «Fagli risolvere il problema di Ipi, lui deve chiederlo a me».
Natoli, al telefono con un altro uomo che rimane anonimo, parla anche di Massimo Rosso, ragioniere generale del Comune di Catania, ai domiciliari con l’accusa di corruzione, e sospeso anche lui dall’incarico per dodici mesi. «Lui (Deodati, ndr) mi ha detto tante volte: “Minchia, Massimo non mi ha chiesto niente“. Minchia, non gli ha chiesto niente?». L’interlocutore scoppia a ridere: «I figli là, la casa, minchia non gli ha chiesto niente… è un coglione». Secondo i pm, infatti, Rosso sarebbe stato «remunerato» con il pagamento del canone di affitto degli appartamenti occupati dalle figlie a Roma, dove studiano, ma anche con l’assunzione dei fidanzati delle ragazze, a tempo determinato, nelle società dei Deodati. Natoli fa due conti: «Una casa là gliela sta pagando lui, e non sono 20mila euro l’anno? Moltiplica per il numero di anni».
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