Fotografia, gli scatti della ex babysitter Vivian Maier «Un’altra personalità nel pantheon dei più grandi»

«Vivian Maier è una personalità estremamente atipica nel mondo della fotografia e delle arti in genere. Una vita anonima, trascorsa facendo la governante e passando da una famiglia all’altra, da un bambino a un altro, da una casa all’altra, senza averne mai di propri». È questo, probabilmente, l’aspetto più significativo che si conosce della vita di quella che è diventata, col tempo, un personaggio intrigante. Babysitter per necessità, fotografa per passione, a lei è dedicata la mostra Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, che da venerdì 27 ottobre e fino al 18 febbraio 2018 sarà ospitata negli spazi espositivi della Fondazione Puglisi Cosentino, a Catania.

Un’esposizione – patrocinata dal Comune di Catania e prodotta e organizzata dal gruppo Arthemisia, Contrasto e diChroma Photography – che attraverso più di 120 fotografie in bianco e nero, una selezione di immagini a colori e alcuni filmati in super 8 cerca di raccontare al pubblico la vita e la personalità della fotografa americana, scomparsa nel 2009, a 83 anni, senza avere potuto godere della meritata fama. «La sua storia è molto controversa – spiega a MeridioNews Alessandra Mauro, curatrice della mostra insieme ad Anne Morin – Durante la settimana passava il tempo a crescere i bambini delle famiglie in cui lavorava, mentre il sabato e la domenica, ma a volte anche durante il pomeriggio, faceva uscire la vera natura della sua personalità, coltivando la sua vera passione, quella per la fotografia».

Ha fotografato tanto Vivian Maier, soprattutto le città dove ha vissuto. New York prima e Chicago poi, che ha immortalato in immagini particolarmente forti, dense e significative, con particolari che in qualche modo diventano «rivelatori di una situazione, di uno stato d’animo, del mood di una città». Ma anche di se stessa e della propria condizione. Nella collezione, infatti, sono presenti tanti autoritratti, che Maier scattava di fronte alle vetrine, agli specchi, alle pozzanghere. «Tutte le volte che incontrava una superficie riflettente provava a scorgere la sua immagine – chiarisce Mauro – La studiava con uno sguardo assorto, come se la composizione fotografica fosse una delle sue grandi preoccupazioni». 

È così che vediamo il suo viso e conosciamo la sua fisionomia da zitella americana: alta, magra, con dei grandi cappelli e un cappottone. «Qualcuno dei suoi ex bambini la ricorda come un po’ burbera o come una pazza, altri invece con affetto. Qualcun altro, addirittura, l’ha accudita e aiutata economicamente durante gli ultimi anni della sua vita».

Sicuramente un carattere forte e particolare, sempre molto presa dalla sua vita e dalla sua passione. La grande quantità di immagini scattate, però, è stata scoperta tardi, quando una Vivian ridotta in miseria era stata costretta ad abbandonare le sue fotografie e le valigie con più di duemila rullini, centomila negativi molti neanche sviluppati e oltre tremila stampe, trovati poi nel 2007, per caso, da John Maloof, agente immobiliare che cercava immagini d’epoca di Chicago e che si aggiudicò il materiale durante un’asta per debiti non pagati.

«È stato compreso fin da subito che ci si trovava davanti a una grande fotografa, che purtroppo della sua fama non ha potuto godere. Oggi abbiamo di fronte un archivio incredibile di fotografie straordinarie, oltre a una personalità nuova in più nel pantheon dei grandi fotografi americani». Un po’ misteriosa per certi versi, di cui si conosce pochissimo e che non ha lasciato nessun documento scritto. «Solo questa grande quantità di immagini che rappresenta una sorta di diario privato in cui registrava le immagini che vedeva e le cose che sentiva».

Adesso, dopo otto anni dalla scomparsa della sua proprietaria, quel diario si apre al pubblico. Così gli utenti attraverso le immagini riscoprono anche l’America degli anni ’50, ’60 e ’70, che sorprende grazie ai diversi scorci e alle immagini sempre nuove e interessanti di Vivian Maier. «La caratteristica più rilevante della sua vita per quel che noi possiamo sapere – conclude Alessandra Mauro – è il fatto di non avere mai avuto una casa o una stanza per sé, e che quindi la sua dimensione privata era costruita in una stanza nelle case di qualcun altro. Con la necessità, ogni volta, di reinventarsi una vita e di rifugiarsi nella fotografia».


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