La notte del 5 febbraio, la città era illuminata dalle fiamme dei ceri portati a spalla a mo di voto per SantAgata, the patronus of the city Di turisti spaesati, catanesi inebriate dal profumo della carne di cavallo e dallaria di festa, devoti modaioli e doccasione, oppure, ma solo qualche volta, veri
Forza Catania, evviva santAgata!
Da che il mondo è mondo, e Catania è Catania, ci sono tradizioni dalle quali salvarsi è quasi impossibile, per quanto esse ci risultino odiose o poco accattivanti. Il folklore, è risaputo, tira fuori il meglio dell’umana virtute e, nella nostra amata cittadina, coinvolge orde d’uomini che, all’improvviso, si riversano nelle vie del centro, abbigliati alla maniera di degenti all’ospedale, coi volti illuminati da una luce che, per trecentosessantatrè giorni all’anno, è spenta come una lampadina fulminata.
«Sant’Agata», dichiara una giovane donna pervasa dallo spirito della festa «è meglio di Natale. Sì, perché Natale è globale, una cosa di tutti, invece la Santuzza è solo nostra, catanese fino nel midollo. Sono giorni, questi, in cui si riscopre una insana unità, una convivialità, il piacere di mangiare carne di cavallo in via Plebiscito. Perché, si sa, a sant’Agata i macellai tirano fuori la carne migliore, e imbottiscono i panini con amore e devozione sinceri ed agatini…»
E sorride, la fanciulla, facendo lo slalom tra le automobili posteggiate nelle maniere più impensabili, e contemporaneamente saltando le copiose buche dell’asfalto, che rendono la strada così simile all’Emmenthal svizzero.
I turisti, macchine fotografiche alla mano, si guardano attorno meravigliati, senza capire fino in fondo che cosa stia accadendo. Un paio, orientali, hanno domandato informazioni ad una coppia di ragazze che stazionava in piazza Teatro Massimo.
«Excuse me, where is piazza Duomo?»
Le due sbarrano gli occhi, interdette. Avessero seguito almeno un paio di lezioni d’inglese…
«Come on!», risponde la prima che, piuttosto che mettersi a cercare nei meandri della sua memoria il capitolo che riguarda le indicazioni stradali, preferisce fare da guida turistica, donando, di quando in quando, fugaci e maccheroniche spiegazioni…
«This is Plaz Università! And there, you see the reason of this big party: the patronus of the city! Sant’aita!»
Semu tutti devoti tutti? Sure, sure.
Quadretti idillici imperdibili, badando bene a non distrarsi, ché non è difficile ustionarsi con le allegre e scoppiettanti fiammelle dei ceri portati a spalla dai devoti, con immane sforzo e sadico compiacimento, poiché per la santa bambina si farebbe qualsiasi cosa.
Il celeberrimo sacco bianco, per due giorni all’anno, garantisce l’impunità, e mette chi lo indossa al di sopra della legge: religiosissime auto ricolme di fedeli imboccavano agilmente sensi vietati, posteggiavano in aree delimitate dalle strisce gialle e s’improvvisavano autobus sulle corsie preferenziali, lasciando sventolare, fuori dal finestrino, una sciarpa del calcio Catania, sicuramente anche quella in onore della patrona.
Il sacco è uniforme da rimorchio, significa “sono un bravo ragazzo: ogni domenica, prima della partita, vado in chiesa”, e dona a chiunque il coraggio di avvicinare le modaiole devote. Gruppi di tre o quattro baldi giovani s’avvicinavano, ammiccanti, a branchi di cinque o sei pulzelle ridacchianti. Presentazioni di rito, domande d’obbligo e, infine, la dichiarazione esplicita: «’Nzomma va’, noi ci andiamo a seguire la Santa, vi lasciamo i nostri numeri, così va’, dopo, ci chiamate. Pure se siete fidanzate, noi problemi non ne abbiamo, va’…»
La religiosità trasudava anche dai collant neri di una ragazzina che, sotto la veste da fedele legata sui fianchi con una cintura brillantinata, portava solo quelli, i collant intendo, e le scarpe col tacco alto. Sant’Agata si segue tutta la notte, sì, ma con stile.
Però, quando la pioggia sorprende la festa, in molti scappano, e sono volti nuovi quelli che si vedono tra le fila di chi rimane a tirare lo spesso cordone: nonostante il poco convincente spettacolo pirotecnico di piazza Borgo, nonostante il fango di segatura e cera che impastava le scarpe, nonostante la mancata corsa lungo la salita di Sangiuliano e i vestiti inzuppati, loro restano là, fino al rientro anticipato del busto.
I fazzoletti sventolano nella luce del primo mattino, in una piazza Duomo rintontita dagli scoppi dei fuochi d’artificio.
Guardando su, verso via Etnea, il panorama è quasi post-bellico. Si ripulisce tutto, in fretta e furia, ché il pattinaggio su cera, ahinoi, non è ancora disciplina olimpica, e al Comune, per ripagare i danni di eventuali incidenti, servirebbe proprio un miracolo della sua patrona.