Forestieri

Erode, vedendosi beffato dai magi, si adirò grandemente e mandò a far uccidere tutti i bambini che erano in Betlemme e in tutti i suoi dintorni, dall’età di due anni in giù, secondo il tempo del quale si era diligentemente informato dai magi. Allora si adempì quello che era stato detto per bocca del profeta Geremia…

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Di chi è questo bambino, domandò il legionario, Il bambino è mio, rispose la donna. Tu non parli bene la nostra lingua, disse il legionario, la donna non disse nulla e strinse il bambino. Dove abiti, chiese il legionario, ti ho visto entrare e uscire da quella stalla. Io sto nella stalla, disse la donna, noi veniamo da lontano e non abbiamo casa. Non puoi abitare in una stalla, disse il legionario, nessuno può abitare in una stalla con questo freddo. Ci sono gli animali, rispose la donna, ci aiutano loro a scaldarci. Non ci credo, disse il legionario, nella stalla tu sei andata per rubare. Cosa devo rubare in una stalla, domandò la donna, se proprio devo rubare rubo a un ricco, non a un bue o a un asino. Di chi è questo bambino, chiese di nuovo il legionario, questo bambino mi ascolta e capisce meglio di te la nostra lingua. Questo bambino giocava con i vostri bambini, disse la donna, è per questo che capisce la vostra lingua. Perché dici giocava, vuoi dire che ora non ci gioca più, chiese il legionario, e intanto tirò fuori da una sacca qualcosa di duro e piatto. Non giocano più insieme, disse la donna, perché adesso ci hanno cacciati dal paese. Se vi hanno cacciato avranno avuto un buon motivo, disse il legionario, e anche stavolta la donna non rispose nulla. Vieni con me, disse il legionario, questo bimbo è troppo biondo per essere tuo. Questo è il mio bambino, disse la donna, ma il legionario non la stava più a sentire. La donna prese il bimbo per la mano e gliela stringeva forte. Il legionario prese il bimbo per l’altra mano, aprì l’oggetto piatto che aveva tirato fuori dalla sacca e glielo poggiò sulle dita. Il bambino non pianse, aveva capito tutto ma non pianse. Le sue dita toccarono qualcosa di umido e stopposo e si sporcarono di una specie d’inchiostro nero. La madre gli teneva l’altra mano. Tutti e due continuarono a camminare, in silenzio dietro il legionario.

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Che c’entrano ora i cristiani, si domandò la ragazza. Aveva deciso di completare i compiti per le vacanze prima che arrivasse Natale, le toccava ancora tradurre mezza paginetta dalla lingua degli antichi legionari. Non era un passo molto famoso, la prof non dava mai per casa versioni di autori troppo noti per evitare poi di dover correggere compiti scopiazzati da Internet. La ragazza cominciò a compitare diligentemente i verbi aiutandosi con il dizionario. Sulla pagina aperta del quaderno, le sue dita annerite d’inchiostro tracciavano la storia di una specie di setta satanica, sbucata da chissà quale terra d’oriente. Traduceva: Il racconto che si fa a proposito dell’iniziazione dei nuovi adepti è tanto tremendo quanto conosciuto. Un bambino viene cosparso di farina per ingannare chi non ha alcun sospetto ed è posto dinanzi a colui che deve essere iniziato ai misteri. La farina, la ragazza lo sapeva, aiuta a far asciugare la carne. Ma cosa c’entrava la farina con quella setta? Ingannato dallo strato di pasta che lo copre, credendo che i colpi siano inoffensivi, il neofita uccide il bambino con ferite invisibili e nascoste. La ragazza ricontrollava i verbi sul dizionario. Ma che schifo! Essi leccano avidamente il sangue, fanno a gara a disputarsi le sue membra, cementano il patto con tale vittima, con tale complicità nel delitto si impegnano a un reciproco silenzio… Traduceva. Avrebbe preferito vomitare, ma traduceva. Solo il titolo in grassetto, in alto sopra le righe da decifrare, non le risultava chiaro. «Infamanti accuse contro i cristiani». Che c’entrano i cristiani, si chiedeva la ragazza. E probabilmente non se lo sarebbe chiesto se al posto loro ci fossero stati i samaritani, o gli ebrei, o i fondamentalisti islamici, o gli zingari, o qualunque altra categoria sospetta declinata al plurale. E invece no, i cristiani. Ma perché proprio i cristiani? La ragazza traduceva senza capire.
 

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Io ti ho già vista, diceva il legionario alla donna. Eri sulla spiaggia, portavi una gonna lunga. Hai chiamato un bambino, l’hai nascosto sotto la gonna e l’hai portato via con te. Io non c’entro, disse la donna, neanche so di che spiaggia parli. Eri sulla via principale, diceva il legionario, ti sei avvicinata a una mamma e fingevi di chiedere la carità, ma intanto guardavi il bambino. Non è vero, disse la donna, e poi questo è il mio bambino. Ti ho vista al mercato che giravi tra la gente, disse il legionario, tu lo sai che le mamme che pensano alla spesa si distraggono e dimenticano i loro bambini. Non è vero, diceva la donna stringendo il suo bambino, ma forse un po’ si sbagliava. Perché il legionario l’aveva davvero vista mille altre volte, lei donna senza casa uguale a tante altre donne del popolo senza casa, lei donna senza nome e con una lingua che suonava così diversa e straniera. L’aveva vista in mille altre donne, se non precisamente mentre rapiva i bambini degli altri – questo, in verità, non avrebbe potuto testimoniarlo – perlomeno mentre si preparava a rapirli, o svicolava furtiva dopo averne forse nascosto qualcuno, o sibilava un verso sospetto in quel suo linguaggio che sapeva di oriente. Non è vero niente, ripeteva la donna, questo bambino è mio. Parlava sempre al singolare, la donna, per lei in quel momento c’erano solo un legionario, quello, e un bambino, il suo. Anche il legionario parlava al singolare, ma pensava al plurale. Guardava quella donna e pensava a tutte le altre donne simili a lei, che come lei non avevano casa e giravano per il Paese a compiere inconfessabili delitti.
 

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Vi sarà una sola legge sia per il nativo sia per lo straniero residente in mezzo a voi Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro Paese, non gli dovrete far torto, ma lo tratterete come colui che è nato fra voi; l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto.
 

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L’aria che si esegue appena prima che cali il terzo sipario è quella in base a cui il pubblico emetterà la sentenza. O si prostrerà in delirante adorazione davanti al tenore, o lo sommergerà sotto una valanga di fischi e di ortaggi. L’aveva cantata cento volte, il tenore, quell’aria. Non era considerato un pezzo sofisticato: quasi tutti i suoi colleghi se la sbrigavano con l’effettaccio del do di petto, con quell’acuto squillante e muscolare che il pubblico si aspettava di sentire e che assicurava l’applauso al cantante. Lui però non cercava mai l’approvazione a buon mercato. Considerava il canto un esercizio dello spirito prima che delle viscere. Lavorava sulla perfezione dell’esecuzione, sulla fedeltà alla partitura. Sapeva che il segreto di quella musica un po’ troppo squadrata non era nelle note ma nel testo, nel gioco timbrico delle vocali. Metteva ogni impegno nelle sfumature, nella declamazione impeccabile. Non gli era mai sembrato difficile, a conti fatti, cantare quell’aria come il compositore l’aveva pensata. Mai prima di quell’anno, di quella recita prenatalizia. Poiché quell’anno la storia romantica e cupa che si rappresentava sulla scena presentava una sospetta somiglianza con le storie che si andavano leggendo sui giornali. Tanto che era diventato ormai difficile distinguere bene la cronaca dalla fantasia. Era la storia di Manrico, rapito nella culla quand’era ancora un bambino: un bambino così piccolo che nella sua mente non era rimasto alcun ricordo dei genitori e del fratello maggiore. A portarlo con sé era stata una zingara, una donna un po’ matta e vendicativa di nome Azucena. Il bambino era dunque cresciuto tra i nomadi, credendo che Azucena fosse sua madre. Sicché, quella volta che qualcuno aveva pensato di farsi giustizia bruciando Azucena sul rogo, Manrico non aveva avuto un attimo di esitazione: si era gettato tra le fiamme per salvarla. Ora toccava a lui – a Manrico, al tenore – entrare in scena. Doveva cantare immaginando il rogo appena acceso per bruciare Azucena, e subito dopo doveva correre fuori di scena per gettarsi idealmente tra le fiamme. Di quella pira l’orrendo foco. Ma il tenore, pensando ad Azucena, non riusciva a dimenticarsi che, quell’anno, l’orrendo fuoco era bruciato davvero, nel suo Paese, intorno ai campi veri degli zingari veri. Zingari accusati – senza prove, e talora contro l’evidenza – di aver rapito o tentato di rapire chissà quanti bambini. A un certo momento, pensava il tenore, tutti i suoi connazionali dovevano aver perduto il ben dell’intelletto, dovevano aver scambiato il palcoscenico per la vita reale, dovevano essersi convinti di vivere in un mondo pieno di insidiose azucene e di piccoli manrichi. Una storia falsa, mille volte ripetuta, era stata alla fine creduta vera e, quel che è peggio, aveva prodotto effetti veri, benché così orribili da somigliare alle stravaganti invenzioni dei libretti d’opera. L’incendio dei campi nomadi, le violenze e le persecuzioni, il sabba delle donne del Paese che festeggiavano ballando intorno alle fiamme: Di quella pira l’orrendo foco. Davvero, era difficile stavolta cantare quell’aria. Era proprio difficile cantare.

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Perché si adempisse ciò che era stato detto per bocca del profeta Geremia, re Erode aveva deciso di uccidere tutti, ma proprio tutti, i bambini di Betlemme e del suo territorio sospettabili di essere il Messia. Ragionava al plurale, re Erode. Un po’ come faceva il legionario, dietro cui adesso stavano camminando la donna e il suo bambino. Il legionario, certo, non doveva mica uccidere i bambini – non lavorava per Erode, lui – ma solo tinger loro le dita con quella specie d’inchiostro. Se avesse saputo di Manrico e di Azucena, avrebbe potuto dire che la sua missione consisteva appunto nello scovare le azucene tra le donne del popolo senza casa, nel restituire i manrichi ai loro veri genitori. Lui non ne sapeva niente, però. Sapeva solo, molto più semplicemente, che il suo non era un cattivo lavoro. Era solo un lavoro duro, si diceva, e se lo ripeteva camminando verso le prigioni. Teneva il bimbo per una mano mentre la donna, che non aveva voglia di scapparsene da sola, lo teneva per l’altra. Il legionario camminava verso le prigioni e calcolava che, anche quella sera, sarebbe tornato tardi a casa.

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La ragazza chiuse il dizionario e stabilì che il suo compito era passabilmente esatto. Aveva fatto tardi, anche perché la madre quella sera era all’Opera e lei, per mangiare un boccone, avrebbe almeno dovuto aspettare che tornasse suo padre dal lavoro: l’ultimo turno serale, salvo imprevisti, prima di Natale. Le restava ancora il dubbio sulla ragione per cui quelle infamanti accuse di cui parlava lo scrittore antico fossero rivolte proprio ai cristiani. Ma davvero qualcuno pensava che i cristiani ammazzassero i bambini e poi se li mangiassero? Pensò che l’avrebbe chiesto al padre, giusto per curiosità. E infatti gliene parlò quando lui, rientrato dal lavoro, prima di mettersi a tavola, si sedette davanti alla tivù a sbirciare ciò che succedeva nel mondo. La ragazza gli raccontò quella storia disgustosa della farina, di quella setta accusata di cibarsi di sangue e membra umane. Ma potevano mai succedere, cose simili? Certo che no. Il padre stava seduto in poltrona e tentennava la testa. Era di spalle, non le rispondeva. Forse era distratto dal telegiornale, che stava per passare alla pagina sportiva dopo aver parlato del clamoroso fiasco di quella sera all’Opera. La pagina della cronaca nera, quella che più lo interessava, purtroppo se l’era persa. La ragazza si avvicinò al padre, girò intorno alla poltrona e lo guardò. Allora si accorse che s’era addormentato. Non si sorprese, semplicemente sorrise. È faticoso sotto Natale, pensò la ragazza. È proprio duro, di questi tempi, il mestiere di legionario.


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