A cinque anni dal loro ultimo lavoro, la band torna e parla delle abitudini dei più. Ad eccezione, appunto, di chi è per natura o per scelta fuori tempo. «Siamo svincolati dalla schiavitù delle etichette», dice il chitarrista Giovanni Allegra
Fora tempu, l’album dei Lautari si fa col crowdfunding «Non siamo ossessionati dal presenzialismo social»
L’hanno presentato in anteprima a febbraio al Piccolo teatro di Catania, eppure l’album ancora non c’è. Fora tempu, l’ultimo disco dei Lautari esiste ma non è ancora stato inciso. Per farlo la band sicula ha lanciato una campagna di crowdfunding sul web, sfatando il mito dell’antinomia tra musica popolare e modernità. «Questo sistema consente ad artisti e musicisti di sfuggire alla schiavitù delle etichette discografiche e delle case di produzione – spiega a MeridioNews Giovanni Allegra, chitarrista del gruppo – e di avere un rapporto diretto con le persone che li seguono e li apprezzano. In questo caso specifico la scelta è dovuta ai tanti nostri appassionati che ci chiedevano di fare un disco nuovo, per cui, avendo i pezzi già pronti, abbiamo optato per questo sistema, che ci consente di farlo con le nostre forze».
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Alle spalle della band, capitanata da Puccio Castrogiovanni, trent’anni di musica popolare insieme, ma anche di strumentale, ballate e pezzi malinconici. «Oggi con la globalizzazione, per fortuna, la musica è aperta e la distinzione per generi è un ricordo marginale, ma quando abbiamo iniziato a farei primi concerti, tanti avevano pregiudizi nei nostri confronti», prosegue Allegra, raccontando gli esordi e confessando che i Lautari sono sempre stati un po’ fora tempu. «Ma noi eravamo orgogliosi di quello che facevamo, che allora era contro corrente, tanto che ci chiamavano zaurdi». Talmente orgogliosi che chi vuole contribuire alla realizzazione del disco può ancora acquistare un pacchetto che include la maglietta con la scritta Zaurdu, in memoria di quei tempi in cui tamburi e dialetto erano ritenuti tali. «In questi anni abbiamo suonato in tutte le parti del mondo portando il nostro dialetto e la nostra musica con riscontri sempre positivi. Coniugare passato e presente è stato per noi un bisogno: abbiamo capito subito che la strada da seguire era quella».
Una dichiarazione di intenti a cui si accompagna l’affinità musicale. «La musica ci comanda a bacchetta, sono i pezzi e le canzoni a decidere magicamente come vogliono essere, noi non facciamo altro che eseguire gli ordini. I Lautari hanno però avuto la fortuna nel tempo di riuscire ad avere le stesse sensazioni e la stessa sensibilità musicale, cosa che si è sempre più rinsaldata». Una sintonia confermata anche da Fora tempu, che è un no a tante tendenze del nuovo millennio, soprattutto a quelle social. «Con questo disco e con tutta la nostra storia – spiega il musicista – rivendichiamo il diritto di prenderci il nostro tempo per fare le cose, di non essere ossessionati dal presenzialismo a tutti i costi, specialmente sui social, che sembrano ormai diventati un obbligo delle nostre esistenze, e anche (se vogliamo) di essere inetti, pigri e mangiaossa, come si dice a Catania».
Se è un’epoca «in cui tutto si misura con l’efficienza e il guadagno (di denaro, di tempo, di prestigio), tutto questo secondo noi è sopravvalutato». Allegro, ritmato e ironico, il singolo Fora tempu rispecchia anche musicalmente la stonatura di chi va controcorrente, soprattutto nel finale, quando uno strumento classico come il clarinetto tocca note così alte e stridule da emulare una tromba. Fora tempu, il singolo. Fora tempu, l’album. Fora tempu, il filo conduttore. «Oltre alla canzone che dà il titolo all’album e che è molto esplicita, anche le altre canzoni raccontano delle storie con atmosfere antiche, anche se sotto sotto parlano di cose molto attuali. Ma questa è sempre stata la nostra cifra stilistica». Prosegue Allegra: «La nostra natura ci porta, come diceva Fabrizio De Andrè, in direzione ostinata e contraria. Ci piace pensare al nostro come a un lavoro artigianale che sta scomparendo; come, per esempio, i liutai di una volta, di cui a Catania c’era una grande tradizione, che per costruire una chitarra o un mandolino impiegavano anni, ma che potevano garantire che alla fine il lavoro era fatto bene».