Il terzo procedimento - che segue il primo ormai chiuso con la sentenza di assoluzione e un secondo sul quale pende una richiesta di archiviazione - nasce dalla denuncia per la morte dell'ultima delle presunte vittime dei cosiddetti laboratori dei veleni. «Sfrutteremo il procedimento più giovane», confermano i legali delle parti civili. Che rivolgono un appello a tutti quelli che hanno frequentato la facoltà catanese
Farmacia, si punta tutto su un nuovo processo «Chiunque abbia avuto problemi, si faccia avanti»
«Chiunque abbia avuto problemi, anche minimi, dopo aver frequentato quei laboratori si faccia avanti». È l’appello che Santi Terranova, uno dei legali delle parti civili della vicenda legata all’ex facoltà di Farmacia, rivolge a quanti nel passato anche recente hanno studiato o lavorato nelle strutture della cittadella universitaria di Catania. «Il primo processo si è concluso con un’assoluzione – spiega l’avvocato – Ma nelle motivazioni della sentenza i giudici ci hanno dato ragione». Dalle valutazioni dei giudici «emerge e viene confermata la nostra tesi: là dentro si lavorava male».
Alla sentenza né la procura né i legali difensori dei parenti delle presunte vittime hanno fatto appello, facendola così passare in giudicato, senza ulteriori possibilità di subire modifiche. Una base dalla quale fare partire un terzo processo. Infatti, il prossimo episodio della vicenda giudiziaria, partita con il sequestro dei laboratori nel novembre del 2008, è l’udienza di giovedì 5 durante la quale si saprà se l’archiviazione chiesta per il secondo procedimento – questo per lesioni e omicidio colposo plurimi – sarà accettata. Ma un terzo fascicolo è stato aperto nel febbraio 2014, con la denuncia per la morte – avvenuta il 25 dicembre 2013 – della ricercatrice Giuseppina Pirracchio.
«Sono 17 le presunte vittime e 50 le patologie oncologiche in atto fra studenti, ricercatori, dipendenti e docenti di quel sito universitario»
«Sfrutteremo il procedimento più giovane – conferma Terranova – un percorso cronologico inverso, così da poter reimpostare il lavoro. Ovviamente, includendo tutte le presunte vittime a partire da Emanuele Patanè». Il dottorando di Farmacia morto nel 2003 è stato il fautore dell’apertura del caso, grazie a un memoriale scritto poche settimane prima di morire e consegnato successivamente alla procura. Una testimonianza riconosciuta come valida grazie a una perizia richiesta dai giudici e da loro inserita tra le deposizioni del processo ormai archiviato.
La speranza che i legali adesso hanno è che oltre ai casi già denunciati – come quello di Agata Annino, Marianna Spadaro, Giovanni Gennaro, Rosario Manna – se ne aggiungano altri. Al conteggio attuale, «sono 17 le presunte vittime e 50 le patologie oncologiche in atto fra studenti, ricercatori, dipendenti e docenti di quel sito universitario». Il terzo procedimento, sperano i legali, potrebbe far emergere – «stavolta senza interrogativi irrisolti» – il nesso di casualità tra le condizioni di lavoro nei laboratori dell’università di Catania e le patologie. A lui fa eco Pierfrancesco Iannello, legale della Cgil, nel corso di una conferenza stampa convocata sulla questione. E rilancia: «Vorremmo lanciare un’ipotesi: un’associazione dei rappresentanti delle vittime. E – aggiunge -vorremmo che il primo obiettivo fosse incaricare un gruppo di lavoro su incidenza ambientale ed epidemiologica». «In quel sito ci sono problemi irrisolti», aggiunge un altro degli avvocati, Vito Presti. «L’università quantomeno dovrebbe fare mea culpa per i disagi dei lavoratori».
«Il processo comincia oggi», affermano quasi a una voce i rappresentanti delle parti. A loro si aggiunge la voce sottile di Maria Lopes, madre della dottoranda Annino. «Sono stati anni pesanti, avrei voluto risparmiare ai miei figli altro dolore. Ma il senso civico, il timore che qualcosa potesse accadere ad altri ragazzi, mi ha spinto a mettermi in gioco. Non è giusto». E ricorda anche le frasi che, poco prima di accettare di costituirsi nel primo processo, le rivolgevano: «”Ti metti sola contro l’università?”. Vorrei che questa frase non di usasse più in questa terra».