Nell'udienza di ieri nel processo sulle vicende del cosiddetto laboratorio dei veleni è stato esaminato il ruolo di Fulvio La Pergola, responsabile del servizio prevenzione e protezione dai rischi di Unict dal 1999 al 2009. «Un galantuomo, una persona per bene», lo descrive uno dei suoi legali. I quali sostengono la mancanza di evidenze che dimostrino la contaminazione. E attaccano: «Non è un caso che la Procura abbia chiesto l'archiviazione» per il procedimento per omicidio colposo
Farmacia, la difesa dell’ingegnere La Pergola «Abbiamo bisogno di dati oggettivi»
Il disastro ambientale colposo? Può essere riconosciuto solo in casi come l’area industriale di Marghera o la Terra dei fuochi. Di certo, non nei locali di Scienze farmaceutiche. Questa la linea difensiva dei legali di Fulvio La Pergola, responsabile del servizio prevenzione e protezione dai rischi dellUniversità di Catania dal 1999 al 2009 e imputato assieme ad altre sette persone nel processo sulla gestione dei laboratori dell’ex facoltà di Farmacia etnea. L’accusa ha chiesto per lui la condanna a tre anni e due mesi per i reati di disastro ambientale colposo, appunto, e omissione datti dufficio. Nell’udienza di ieri, i suoi avvocati Stefano Lalomia ed Enrico Trantino hanno esaminato il caso dalle prime indagini partite nel 2008 e culminate con il sequestro dell’edificio 2 della Cittadella universitaria. «Tutte queste contestazioni hanno un unico presupposto: che l’ingegnere e gli altri imputati fossero a conoscenza dello stato di contaminazione del suolo», afferma Lalomia. Però «in questo processo non se ne ha la minima evidenza».
Mancherebbero, secondo il legale, rilevazioni certe sulle condizioni dell’edificio, del terreno sottostante e di quello limitrofo. E, inoltre, nessuno tra accusa e parti civili ha consultato né tossicologi né medici. «Questi approfondimenti sono mancati»; non per negligenza, ma «per la totale mancanza di dati». Nell’arringa del rappresentante dell’Università (parte offesa e responsabile civile), l’avvocato Guido Ziccone aveva sottolineato l’esigenza di uno studio epidemiologico che potesse collegare malattie e decessi alle condizioni ambientali. Ma Stefano Lalomia non concorda con il collega, perché a monte servirebbero informazioni su contaminanti ed esposizione. «Abbiamo bisogno di dati oggettivi», ripete a più riprese. «Il disastro – sostiene con foga – è un evento che non può sfuggire alla percezione umana». E, comunque, dovrebbe essere imputato a chi negli anni ha sversato, non a quanti avrebbero cercato una soluzione.
«È comprensibilissimo il bisogno di ottenere una pena», prosegue l’avvocato riferendosi ai parenti delle presunte vittime. Ma sono troppe le domande senza risposta, elenca Lalomia. Quale evento? Quale contaminante? In quale quantità? Sversati da chi? «Questi sono i quesiti da porre in questo processo». E aggiunge: «Non è un caso che la Procura abbia chiesto l’archiviazione» per il procedimento per omicidio colposo. Dipende dalla mancanza di dati oggettivi, «non è un atto illogico né un capriccio del dottor Setola (Lucio Setola, titolare delle indagini fino al settembre 2013, ndr)».
Per Stefano Lalomia i toni allarmisti di molti documenti esaminati nell’istruttoria non sarebbero legati all’effettivo stato dei luoghi, ma sono stati utilizzati per non far calare l’attenzione dei vertici dell’Ateneo. «I primi a non sminuire i fenomeni sono stati gli imputati». E terminando con l’esame dei rilevamenti effettuati dal Nucleo chimico mediterraneo e dalla It group, il legale spiega che «è impensabile credere che trent’anni di sversamenti illeciti non abbiano lasciato traccia nel sottosuolo».
La parte dell’arringa affidata a Enrico Trantino riguarda più specificatamente la figura di Fulvio La Pergola e il suo ruolo di responsabile del servizio prevenzione e protezione dai rischi. «Una figura che ha una posizione consulenziale, ma non di intervento»; la sua funzione sarebbe quella di ausilio nell’individuazione dei fattori di rischio e la conseguente segnalazione al datore di lavoro, Unict in questo caso, e avrebbe una responsabilità nel caso in cui tacesse tali pericoli. Ma La Pergola, «pur dividendosi su più strutture, non lesinava la sua opera e interveniva tempestivamente», racconta Trantino. Per identificare chi continuava a sversare «avrebbe dovuto armarsi di 18 dobermann? Istituire uno stato di polizia?», chiede retoricamente l’avvocato. «Che cosa si doveva fare?». L’ingegnere segue la discussione da lontano, in piedi, tenendosi in disparte e avvicinandosi ai suoi avvocati solo al termine dell’arringa che lo riguarda. «Un galantuomo, una persona per bene», lo descrive. E chiedendone l’assoluzione, spiega come la vicenda processuale abbia lasciato – a lui, come agli altri imputati – «cicatrici non rimarginabili».