Emergenza freddo, le storie di chi vive per strada «Stavo per aprire una pizzeria ma ho perso tutto»

Passata la mezzanotte, in questi giorni, pure a Catania le temperature segnano lo zero. Così da ieri notte la Croce rossa ha montato una tenda da campeggio in piazza della Repubblica. In altre occasioni già dal pomeriggio una quarantina di persone, in città, apparecchia un marciapiedi, la scalinata di un palazzo, qualche scoglio del Lungomare, il sottoscala di un ospedale o un porticato con tende da campeggio, materassi sporchi e coperte per ripararsi dal freddo. Questa gente – sparsa ai fianchi della società civile – non ha scelto l’avventura ma è stata costretta a farlo da un sistema che spesso non dà un’opportunità diversa a chi ha speso tutti i soldi che aveva per curare una malattia, a quelli che hanno perso il lavoro e non ne hanno trovato un altro e a coloro i quali sono arrivati da un altro Paese per cercare fortuna ma si sono dovuti accontentare di una baracca. In condivisione con altri, per fare gruppo contro i furti di pane, la guerra tra poveri o più semplicemente la solitudine.

A conoscere ciascuno di loro sono le tante associazioni di volontariato cittadino e alcuni privati, che mossi dalla compassione, dalla fede o dalla voglia di fare del bene, si organizzano per distribuire ai senzatetto di Catania cibo, bevande calde, coperte e vestiti. Per lo più giubbotti, berretti e sciarpe di lana. Tra questi enti c’è soprattutto la Caritas diocesana che ha cucito un servizio specifico, attivo 365 giorni l’anno o 366 nei casi di bisestilità, ovvero la cosiddetta Unità di strada. Attorno alla quale ruotano circa 35 persone. Come Alfio Pappalardo, 60 anni, attivo nel settore da nove e ormai colonna portante del gruppo.

Partiamo ogni sera con le macchina carica di buste di cibo e indumenti

«Partiamo ogni sera con la macchina carica di buste di cibo e indumenti, conosciamo tutte le zone della città in cui c’è bisogno di noi», ci spiega mentre lo seguiamo durante il giro. A preparare il pasto è la mensa diocesana, che «sistema in una sacchetto un contenitore di pasta, un panino imbottito e un frutto. Nelle occasioni speciali c’è pure un dolce». Ma il più delle volte «c’è quello che passa il convento», aggiunge. Una frase con cui indica il risultato delle donazioni – fatte da bar e panifici a orario di chiusura – e quanto preparato nelle cucine dell’Help center della Stazione. Un’area di raccolta da cui si parte, ogni giorno alle 19, verso i punti sensibili della città. 

Tra questi gli snodi più noti – come piazza della Repubblica e il lato ovest di corso Sicilia – sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che vede cloachard anche in altre aree. Con una dovuta distinzione. Ci sono quelli che l’aiuto dei volontari lo accettano e ringraziano e gli altri che – per un’aggressività figlia di una vita di sacrifici e disgrazie – vogliono cavarsela da soli. Arrivando in alcuni casi a esiti tragici, come risse e accoltellamenti. Le zone in cui si concentra questa tipologia sono soprattutto Fontanarossa e i vagoni abbandonati della Stazione. Zone borderline «pure per gli operatori della Caritas che, in passato, hanno rischiato di rimetterci la pelle», sottolinea Pappalardo. Oggi i volontari si dividono tra chi ha bisogno a tal punto da non volerlo nascondere, nemmeno a se stesso. 

In questa fascia rientrano i cloachard distribuiti nel cortile di una palazzina di Vulcania, quelli di una baracca messa su tra gli scogli del Lungomare, un uomo che sta sotto i portici di via Giacomo Leopardi e un altro che vive sotto il cavalcavia di via Acireale. E ancora, un gruppo di di mauriziani e srilankesi del Tondo Gioeni, un altro nei pressi dell’accademia di Belle arti e un altro ancora sotto i balconi dell’ex Excelsior hotel (oggi Mercure, ndr) di piazza Verga

Senza dimenticare le decine di persone che dormono nella sala d’aspetto dell’ospedale Garibaldi nuovo. Di età compresa tra i 30 e i 60 anni, si tratta per lo più di uomini stranieri – proveniente dal Nord Africa o dall’Europa dell’Est -, ma c’è anche qualche donna. Che fa sempre gruppo con almeno uno o due uomini. Ma non mancano i catanesi, circa 5 su 40, le coppie (almeno due) e i minorenni. Che, passata la mezzanotte, cercano di combattere contro le temperature che pure a Catania segano lo zero. 

Stavo per aprire una pizzeria in Argentina ma i miei genitori sono morti

«Sono arrivato in Italia circa 11 anni fa dall’Argentina. Quando sono morti i miei genitori stavo per aprire una pizzeria ma – racconta José – mi hanno rubato tutto quello che avevo prima dell’inaugurazione e sono finito in mezzo a una strada». Dove adesso vive, in una baracca tra gli scogli del Lungomare insieme a due cani e ad altrettante persone. «C’è molto freddo ma si tira avanti grazie alla provvidenza», sostiene. E per lui la provvidenza ha il volto dei volontari della Caritas che non si dimenticano di lui nemmeno una notte. Storia simile per Santa e Mauro, una coppia di 40enni di Catania che dorme nella sala d’aspetto del Garibaldi. «Dove altro dovremmo andare?», domandano. «Aspettiamo che domani ci diano un alloggio popolare ma quel domani non arriva da più di un anno», dice Mauro. 

E un alloggio – ma di fortuna e pericolante – l’ha trovato Stephan, un trentenne originario della Romania. L’uomo – dopo avere vissuto per anni sotto il cavalcavia di via Ibla a bordo di un furgone abbandonato – sta in un pianterreno diroccato. Non ne vuole sapere di farsi recuperare dai volontari della Caritas. Che hanno provato a convincerlo così come hanno cercato di fare con gli altri perché «il fine ultimo è quello», chiarisce Alfio Pappalardo. Ma a volte il trucco non riesce, e i pasti da portare in giro diventano di più. 


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Sono finiti a mantenersi di espedienti per motivi diversi. Tra chi ha finito i soldi per curarsi, chi ha perso il lavoro e chi è arrivato da un altro Paese per cercare fortuna e si è dovuto accontentare di una baracca. Abbiamo seguito i volontari della Caritas durante la distribuzione dei pasti ai senzatetto

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