Un colpo al cerchio e uno alla botte. La magistratura contabile di Palermo se la prende con chi ha redatto il piano di riequilibrio e con chi non lo ha rispettato, con chi avrebbe dovuto studiare le carte e con chi non ha vigilato
Ecco perché la Corte dei conti chiede il dissesto «Norme contabili violate» e atti inviati in procura
Irregolare, approssimativo, falso. Sessantotto pagine che si possono sintetizzare in tre parole. La deliberazione della sezione di controllo della Corte dei conti sui bilanci del Comune di Catania è durissima e dà un colpo al cerchio e più di uno alla botte. I magistrati contabili ordinano a Palazzo degli elefanti di avviare le procedure affinché il Consiglio comunale deliberi il dissesto economico-finanziario del municipio. E lo fanno sulla base di motivazioni che partono da lontano, cioè dal 2013 quando il piano di riequilibrio che avrebbe dovuto evitare questa situazione è stato approvato: a firmare quel documento era stato l’allora assessore al Bilancio Roberto Bonaccorsi, componente della giunta di Raffaele Stancanelli.
Passati cinque anni, sulla poltrona che scotta siede di nuovo Bonaccorsi. «Io sono l’ingegnere che ha immaginato la struttura – dichiara lui – Se poi il progetto non è stato realizzato e il palazzo crolla, è colpa di chi non ha seguito le mie indicazioni». Più che una frecciatina è un j’accuse: l’ex primo cittadino Enzo Bianco, nelle cui mani il piano di rientro è arrivato poco dopo l’approvazione, lo ha adottato così com’era. E ha proposto delle modifiche che, però, il ministero dell’Interno non ha ancora vagliato. Nel frattempo, le casse sono peggiorate in maniera continua e costante, portando a quel miliardo e mezzo di euro di debito considerato un punto di non ritorno. Il cerchio (Bonaccorsi), la botte (Bianco).
A leggere le carte la ricostruzione che si può fare è quasi cronologica: il 2 febbraio 2013 l’allora Consiglio comunale agli sgoccioli sceglie di fare ricorso alla procedura di rientro del debito prevista per le amministrazioni in pre-dissesto. Il primo piano di riequilibrio ha durata decennale e conta passività totali per 526 milioni di euro. I debiti fuori bilancio sono 86 milioni di euro, dei quali 25 milioni verso le società partecipate, mentre il disavanzo di amministrazione (le uscite che superano le entrate) è fissato in 140 milioni di euro. La Corte dei conti lo approva ma, nel 2015, quando redige la sua relazione sullo stato di attuazione del riequilibrio, gli stessi magistrati contabili si accorgono che sono spuntati 50 milioni di euro di debiti che prima non erano stati considerati. Si tratta, per lo più, di sentenze sfavorevoli al Comune, decreti ingiuntivi e pignoramenti che fino al 2013 erano solo «potenziali» e che, però, non erano stati previsti.
Da quel momento in poi, la strada per Palazzo degli elefanti sembra tutta in salita. L’iniziale «sottostima» dei numeri peggiora di anno in anno. Anche perché le ricognizioni «dei debiti fuori bilancio e delle passività potenziali non vengono effettuate in modo puntuale e analitico», violando in più casi «norme e precetti contabili». Il disavanzo cresce e il piano di riequilibrio, sebbene rimodulato negli anni successivi, non è funzionale all’obiettivo del risanamento: non c’è un fondo per coprire le perdite delle società partecipate e quello per pagare eventuali contenziosi persi è prima di dieci milioni di euro, poi di 35 milioni di euro, a fronte di cause che, al 31 dicembre 2015, impegnerebbero il Comune per 712 milioni di euro. In mezzo, poi, ci sono questioni poco chiare: il municipio, per esempio, chiede alla Cassa depositi e prestiti delle «anticipazioni di liquidità». Cioè soldi che servono per pagare immediatamente dei servizi. Ed è analizzando quelle cifre che la sezione di controllo contabile si accorge di oltre quattro milioni e 700mila euro di fatture «formalmente» pagate nel 2014 ma presenti nel bilancio (come «residui passivi», cioè somme da versare) del 2016. Su questo punto, la Corte dei conti di Palermo alza le braccia: se ne occupi la procura di Catania, dicono i magistrati.
In 68 pagine c’è poi lo spazio per sottolineare pure le sciatterie: tabelle inviate con semplici «file Excel, peraltro non debitamente sottoscritti», allegati assenti e scadenze non rispettate. Il 31 maggio 2017 scadeva il termine per presentare la rimodulazione del pagamento del disavanzo di amministrazione: i 140 milioni di euro avrebbero potuto essere pagati, grazie a una legge del 2016, in trenta anziché in dieci anni. Ma il Consiglio comunale era stato convocato per l’1 giugno e l’approvazione alla modifica del piano di riequilibrio è stata votata il giorno dopo, il 2, «cioè oltre il termine perentorio fissato dal legislatore». In poche parole: niente disavanzo spalmato in trent’anni, con buona pace di chi – nel corso di quella concitata seduta del senato cittadino – lo aveva detto, inascoltato, che non si poteva fare: Sebastiano Arcidiacono, Manlio Messina e Niccolò Notarbartolo.
La Corte dei conti se la prende con chi ha approvato il piano di riequilibrio, con chi lo ha portato avanti e non è mai riuscito a rispettarlo, con la direzione Ragioneria che non ha capito che in quel modo non si poteva proseguire, col collegio dei revisori dei conti che, per legge, era tenuto a vigilare. In queste condizioni, il dissesto sarebbe «indifferibile» e «obbligato». L’incartamento, intanto, passa per intero alla procura del tribunale di Catania e alla procura regionale della Corte dei conti. La palla, invece, torna di nuovo al Comune: il ricorso alle sezioni riunite della magistratura contabile di Roma sembra essere la strada da tentare. Almeno per prendere tempo ed evitare che il nuovo Consiglio comunale, che ancora non si è insediato, debba deliberare il dissesto cominciando in modo funesto la propria esperienza quinquennale.