Per la seconda corte d’assise di Palermo Adele Velardo «non ha commesso il fatto». Dura la reazione dei parenti delle vittime, presenti a tutte le udienze del processo, che hanno reagito con applausi di scherno verso il giudice, lacrime e urla: «A me figghiu cu ammazzò? Non è questa la giustizia»
Duplice omicidio Falsomiele, assolta l’unica imputata Parenti vittime: «Vergogna, avete difeso un’assassina»
Adele Velardo assolta per l’omicidio di Vincenzo Bontà e Giuseppe Vela, freddati a colpi di pistola il 3 marzo 2016 in via Falsomiele. Così ha deciso la seconda corte d’assise di Palermo, dopo un anno e mezzo di processo, eccezionalmente riunita nell’aula bunker dell’Ucciardone. Nessuna replica delle parti, si va dritti in camera di consiglio, dove la giuria è rimasta riunita per quasi quattro ore prima di giungere al verdetto. Assolta per non aver commesso il fatto. «Chista è a giustizia italiana». C’è moltissima rabbia nelle parole dei parenti delle due vittime, costituiti parte civile e sempre presenti a tutte le fasi del processo. «Vergogna – gridano a più riprese -. Avete difeso un’assassina. Avremo giustizia con Dio». E poi la disperazione della mamma di Vela, il giardiniere ucciso quel giorno probabilmente solo perché scomodo testimone del delitto dell’amico che stava accompagnando: «A me figghiu cu ammazzò? Non esiste giustizia, non è questa la giustizia».
Reazioni forti. Qualcuno, alla fine della lettura della sentenza ha applaudito in direzione del giudice, con fare ironico, di scherno. Qualcun altro ha iniziato a piangere sommessamente. Non è l’esito in cui speravano, non era quello che si aspettavano di sentire. Il pubblico ministero Claudio Camilleri aveva chiesto per lei l’ergastolo. Unica imputata di un delitto per il quale è stata indagata sin dalle primissime fasi, insieme al marito, morto suicida al Pagliarelli dopo alcuni mesi di detenzione, alla lettura della sentenza ha deciso di non essere presente. La sentenza dispone per lei anche l’immediata revoca dei domiciliari, cui era sottoposta. Per l’impianto messo in piedi dall’accusa i colpevoli sarebbero stati i due coniugi: avrebbero agito insieme. Lui, Carlo Gregoli, sparando i colpi mortali, lei supportandolo materialmente e moralmente, senza mai farlo desistere, senza mai fermarlo. Ne sono convinti, malgrado il movente resti ad oggi ancora un buco nero. A rafforzare questa ricostruzione hanno contribuito le prove raccolte durante le indagini, sia con l’analisi della scena del crimine, sia con le perquisizioni nella villetta dei coniugi e nella loro automobile.
Restano le tracce di sparo rimaste sul volante, sul cambio e sullo sportello della vettura, e quelle ritrovate su alcuni loro abiti, la presenza di armi in casa della coppia – Gregoli era un appassionato di caccia e aveva regolare porto d‘armi -, e gli spostamenti di quella fatidica mattina. Alcuni di questi immortalati dalle telecamere della zona, che li filma mentre imboccano in auto la via teatro del delitto pochi istanti dopo quella delle due vittime. Una ricostruzione sposata anche dagli avvocati di parte civile, che rappresentano i parenti di Bontà e Vela, i quali nell’arringa finale hanno parlato di «esecuzione premeditata» e di «prove inoppugnabili». Le stesse che per la difesa della donna, invece, rappresentata dagli avvocati Paolo Grillo e Marco Clementi, non sono altro che meri «fatti indizianti», privi del necessario peso e valore probatorio. Elementi che in aula hanno scardinato pezzo per pezzo, chiedendo l’assoluzione di Adele Velardo perché estranea, così come il marito, al duplice omicidio. Ricostruzione, questa, sposata oggi dalla Corte.