Dopo circa un secolo dal loro uso, un desiderio drammaturgico ha portato il regista Guglielmo Ferro e l’autore Angelo Scandurra ad immaginare quale vita si celi dietro ad ogni singola figura che compone il mazzo di carte siciliane. E ciò che è venuto fuori da questa idea stravagante è un intreccio di storie, una mescolanza di linguaggi, un mix di fantasie autoriali che rievocano le mille sfumature del carattere siculo.
Bruno Torrisi presenta una sorta di competizione poetica tra i vari personaggi che animano le carte più significative, uscite per l’occasione dal cassetto per raccontare in rima il senso della vita. Come titolo, tra tutti i giochi possibili e cantati da I Lautari (tresette, tivitti, marianna, briscola e solitario) si sceglie quello più democratico in cui ognuno vale quanto appare. Con l’ingresso trionfante di giovani attori che distribuiscono coppe di vino in sala agli astanti, ha inizio la gara di versi.
L’incipit è esilarante con un Settebello a sette interpreti quante le monete presenti sulla carta (Davide Giuffrida, Teresa Spina, Yvonne Guglielmino, Eleonora Li Puma, Elena Scicolone, Marta Blandini, Evelyn Famà), “vastasu come l’autore del testo” (Ottavio Cappellani), in dialetto e intriso di una volgarità comica, dove “baldracca” diventa sinonimo di alla moda. Si prosegue con un Re di spade (di Giuseppe Bonaviri e raccontato da Lino De Motta), che non presenta una verve combattiva ma piuttosto alimenta sogni di libertà, pace e fratellanza. È poi la volta del Tre d’oro (scritto da Angelo Scandurra e interpretato da Agostino Zumbo, Rosario Minardi e Francesco Maria Attardi), carta che pur non avendo valore a scopa, diventa un “carico” nella briscola e può vantare tutta la forza della Sicilia, come ricorda il disegno della Trinacria inciso al centro delle tre monete. “Tre di oro vince, tre di oro perde” – non casualmente – è la figura portatrice della metafora dell’intera opera: nel gioco come nella vita stessa non ci sono né vinti né vincitori.
Lo stesso cantore della serata, Bruno Torrisi, fa le veci del Due di spade, prendendo le sue difese e riuscendo ad attirare le simpatie del pubblico, con il divertente discorso scritto da Emilio Isgrò, che porta la carta più sottostimata del mazzo a dichiarare: “potendo scegliere, sarei esattamente quello che sono”, ovvero uno che può fare la pennichella con le armi al fianco ma senza usarle mai. Il primo tempo viene siglato dall’apparizione sfavillante nell’abito dorato di Mariella Lo Giudice che con Rosario Minardi e Agostino Zumbo hanno reso un’interpretazione più intensa della storia sofferta del Re d’oro (di Pietrangelo Buttafuoco), anche conosciuto come “ la Matta ”, che riassume epoche e temperamenti contrapposti nella sua avidità che alla fine troverà riposo solo nel mazzo di carte.
Dopo l’intervallo, si torna a ridere con il Due di Coppe, di attribuzione ad Andrea Camilleri e narrata da Lino De Motta che torna in scena, dentro una botte di … legno! La sua è la rivendicazione dei più piccoli ed invisibili, della carta che soffre più di tutti, perchè schiacciata dal peso dei suoi vicini (l’asso ed il tre), guardata con superbia dai compagni dello stesso seme e trattata con indifferenza dagli stessi giocatori che sono soliti lanciarla sul tavolo da gioco senza troppa enfasi! Eppure è diventata un tropo, entrando a far parte del linguaggio siculo, come nel detto “Vali quantu u dui di coppi quannu a briscola è a spadi!”. Si susseguono il mistero dei Cavalli (e perché non cavalieri?!, ci si chiede) che nella penna di Micaela Miano e nell’interpretazione veemente di Giovanni Rizzati diventano i quattro figli della stessa madre; Donna di bastoni immaginata dalla sua autrice (Carmen Consoli) come una donna di sentimenti, che mostra ed aspira a valori quali dedizione, fedeltà e sincerità, prevalentemente cantati dalla brava Francesca Ferro, ed infine la Donna d’oro, ricca e malandrina, che nei suoi colori allude alla variegata bellezza della nostra isola: il rosso come il fuoco dell’Etna, l’azzurro come il cielo terso ed il mare limpido, il giallo come il colore delle spighe. Scritta da Gabriella Vergari, questa carta non poteva che essere interpretata da Mariella Lo Giudice, che con un excursus storico che rievoca personaggi storici e leggendari (come Federico Stupor Mundi e Gammazita) va a chiudere anche il secondo ed ultimo tempo della rappresentazione scenica.
Insomma, uno show che nonostante la varietà degli autori si presenta con momenti regolari e stabili come la struttura che ripete lo stesso schema nei due tempi (ilarità, storia e climax con le interpretazioni singolari della Lo Giudice), e con l’accompagnamento musicale dei Lautari, a fare da trait de union tra le varie scene, riproponendo spesso la melodia-leit motiv dell’opera.
Protagoniste sono le carte ma sopra tutti è la Sicilia , la sua storia, la sua arte, la sua lingua, il suo popolo. In una parola, la sua anima.
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