Dirigenti regionali: la mistificazione della terza fascia Con la speranza che la prossima riforma faccia chiarezza

da Francesco Schillaci
dirigente della Regione siciliana
riceviamo e volentieri pubblichiamo

Con riferimento all’intervento di Giulio Ambrosetti pubblicato l’11 novembre scorso, dal titolo la “Bomba dei dirigenti generali”, vorrei sottoporre alcuni argomenti che spero contribuiscano a fare un po’ di chiarezza sulla questione.

Nella ricostruzione, che prende spunto dalla recente (ri)nomina della D.ssa Corsello al vertice del Dipartimento Lavoro, l’assunto principale è che «quasi tutti i dirigenti generali della Regione Siciliana sono illegittimi», in quanto la legge regionale n. 10 del 2000 avrebbe «creato in una notte, come per magico incanto, circa 2 mila dirigenti”, atteso che la stessa legge “recepisce il decreto Cassese del 1992 (n. 29). I dirigenti di ottavo e nono livello sono collocati tra i funzionari direttivi. Mentre i direttori e i dirigenti superiori sono collocati nelle prime due fasce dirigenziali. La stessa legge regionale n. 10 – caso unico in Italia – ha creato la terza fascia dirigenziale (ex dirigenti di settimo e ottavo livello)».

Da dirigente regionale che riveste tale qualifica fin dall’assunzione, avvenuta nel 1989 (a seguito di pubblico concorso, è bene precisarlo), e che non si sente particolarmente gratificato dalla suddetta “concessione”, proverò a smentire tale ricostruzione.

La premessa fondamentale è che non può effettuarsi alcun raffronto (ancor più prima del recepimento del D.lgs. 29 del 1993) tra l’ordinamento del personale e della dirigenza della Regione Siciliana e quello dello Stato, data la differente disciplina, in virtù della competenza legislativa esclusiva spettante in materia alla Sicilia, ai sensi dell’art. 14, lettere p e q dello Statuto.

Stupisce che ciò sfugga ad un convinto autonomista come Ambrosetti.

E’ indispensabile, quindi – se si vuole davvero dipanare l’intrigata matassa, senza soggiacere a mistificazioni tanto fuorvianti quanto interessate – un breve excursus sul peculiare assetto della dirigenza regionale precedente la legge 10 del 2000, per comprendere meglio il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento.

Il vecchio ordinamento – configurato fondamentalmente dalle leggi regionali n. 7 del 1971, n. 41 del 1985 e n. 21 del 1986 – contemplava tre qualifiche: direttore regionale, dirigente superiore e dirigente, inserite in un ruolo amministrativo e in numerosi ruoli tecnici e/o speciali.

I dirigenti amministrativi erano collocati inizialmente al settimo livello retributivo e, dopo un quinquennio, passavano automaticamente all’ottavo livello. Si trattava, è bene rimarcarlo, di livello retributivo, e non attinente alla qualifica funzionale. Non esisteva un nono livello.

Per l’accesso era prescritto, secondo la disciplina generale derivante dalla Costituzione, il pubblico concorso, con il requisito della laurea e in alcuni casi specifica abilitazione professionale. Tuttavia, mediante apposite leggine a partire da quelle sull’occupazione giovanile dei primi anni 80’del secolo scorso – tali modalità subirono purtroppo frequenti deroghe.

Tant’è vero che si è avuto un famoso caso di un impiegato il quale, proveniente dalla qualifica di “avventizio”, in possesso solamente del titolo di studio della scuola dell’obbligo, grazie a passaggi interni di carriera ha raggiunto la qualifica di direttore regionale, come noto attribuita con deliberazione dalla Giunta regionale (senza alcuna procedura concorsuale).

Così pure peculiare è stata la vicenda della qualifica di dirigente superiore, introdotta dalla legge regionale 41/85 in concomitanza con i settori (strutture mai istituite), che, grazie alla solita, provvidenziale leggina correttiva (L.r. 21/86), annoverava numerosi soggetti sforniti di laurea, i cui effetti perversi si sono moltiplicati con il passaggio alla Regione di dipendenti di uffici statali e di enti vari. Si è in tal modo potuto verificare il caso di cuochi di mensa universitaria transitati nell’Amministrazione regionale con la qualifica di dirigente superiore.

Questo nell’ambito di una scriteriata politica delle assunzioni che ha ingolfato i ruoli del personale, concorrendo ad allargare la voragine del deficit pubblico, a tutto svantaggio delle nuove generazioni.

Occorre aggiungere che le funzioni della dirigenza (tutta) precedente la legge regionale 10/2000 – così come nello Stato prima del citato D.lgs. 29/1993 – erano tutt’affatto diverse rispetto al nuovo ordinamento, che ha recepito il principio fondamentale della separazione tra i compiti di indirizzo spettanti agli organi politici e quelli di gestione spettanti alla dirigenza, configurandosi, prima, quali funzioni di consulenza e proposta nei confronti degli organi di vertice (Presidente ed Assessori regionali, cui erano riservati tutti i provvedimenti a rilevanza esterna), oltre ai compiti organizzativi della struttura cui si era (eventualmente) preposti. Pertanto, la posizione dirigenziale per molti aspetti più qualificata – cui spettava appunto la proposta dei provvedimenti finali al vertice politico-amministrativo – era senz’altro quella del dirigente coordinatore, primus inter pares rispetto agli altri dirigenti assegnati al gruppo di lavoro, struttura organizzativa di base. Tale ruolo era ricoperto, indifferentemente, da dirigenti superiori e dirigenti semplici.

La scelta del legislatore siciliano, con la legge 10 del 2000, è stata di inquadrare nel nuovo ordinamento della dirigenza tutto il personale con qualifica dirigenziale, in un ruolo unico articolato in due fasce (collocando nella prima i direttori regionali e nella seconda i dirigenti superiori) e istituendo, «nella prima applicazione» una terza fascia, inquadrandovi tutti gli altri dirigenti amministrativi e tecnici o equiparati (art. 6). Probabilmente, sarebbe stato più opportuno mettere alcuni paletti, individuando appositi criteri e quindi limitare a due le nuove fasce dirigenziali, o, quantomeno, stabilire requisiti tassativi per l’attribuzione degli incarichi dirigenziali.

Invero, la stessa normativa ha riservato gli ulteriori «posti disponibili» della seconda fascia, in prima attuazione, ai dirigenti di terza fascia, attraverso un apposito concorso, e poi, per un quinquennio, una quota del 50%, e successivamente del 30% (comma 5).

Tuttavia (nonostante l’art. 11 comma 3 della L.r. 20/2003 stabilisse il termine del 31 dicembre 2006), tali concorsi non si sono mai svolti, per precisa volontà dei Governi di non selezionare un novero più ristretto di dirigenti per l’affidamento degli incarichi dirigenziali di maggiore rilevanza, ritenendo più opportuno potere scegliere – con discrezionalità che spesso e volentieri è sfociata nell’arbitrio – da una platea molto più ampia.

Di questo «calcolo di bottega» non si possono incolpare i dirigenti.

Difatti, la normativa (anche a seguito della legge regionale 20 del 2003), indica un mero criterio di preferenza per le prime due fasce nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali, non tassativo ma comunque soggetto a motivazione in caso di scelta diversa, motivazione che è stata rafforzata di recente con l’obbligo della valutazione comparativa introdotto dal decreto Brunetta (D. lgs. 150 del 2009), tuttora spesso disatteso, soprattutto per gli incarichi apicali.

Invece ha dominato, quasi sempre, un’ottica perversa che privilegia la vicinanza politica rispetto alla professionalità, utile, peraltro, a mantenere la dirigenza in una posizione di asservimento, non garantendole la necessaria autonomia e serenità operativa. Basti pensare alla brevità degli incarichi ed alle forsennate, continue “rotazioni”, frutto della degenerazione del c.d. spoil system, che impediscono un minimo di programmazione dell’attività, deprecate anche dalla Corte dei Conti.

Resta comunque fuori discussione l’unicità della qualifica e dello status dirigenziale di tutti i dirigenti regionali, le cui funzioni dirigenziali hanno un nucleo comune (art. 2, comma 2), e si differenziano per il livello di incarico (art. 7: strutture di massima dimensione; art. 8: altri dirigenti), mentre sul piano del trattamento retributivo di base è rimasta soltanto una lieve differenziazione per la prima fascia, mentre sono stati equiparati i dirigenti di seconda e terza fascia (art. 61 del vigente CCRL dell’area dirigenza). La differenziazione, anche notevole, si ha invece nel trattamento economico accessorio, ossia l’indennità di posizione correlata all’incarico dirigenziale svolto, con le corrispondenti fasce retributive (art. 64 CCRL).

La dinamica delle dotazioni dirigenziali ha visto poi la quasi scomparsa della prima fascia (attualmente 1 sola unità rimasta), ed un progressivo forte assottigliamento della seconda fascia (34 unità, ivi compresi quelli provenienti, grazie alle solite leggine, da enti di varia natura, sui cui requisiti ci sarebbe da approfondire…), a fronte di una terza fascia che, con le attuali 1714 unità, costituisce il corpo vivo della dirigenza regionale, nella quale si trovano (non foss’altro che per la legge dei grandi numeri) le migliori professionalità.

Ove si consideri che, a fronte di ciò, le strutture dirigenziali di massima dimensione (Dipartimenti ed equiparati) sono 27, quelle intermedie (Aree e Servizi) 474, e 1259 le Unità Operative di base (v. Corte dei Conti, relazione sul rendiconto 2013 della Regione Siciliana), si comprende bene l’esigenza, risalente ormai nel tempo, di attingere alla dirigenza di terza fascia anche per gli incarichi apicali.

Difatti, il legislatore siciliano, preso atto di tale situazione, ha introdotto, con il comma 5 dell’art. 11 della L. r. n. 20 del 2003, una modifica alla L. r. 10/2000, per la quale «L’incarico di dirigente generale può essere, altresì, conferito a dirigenti dell’amministrazione regionale appartenenti alle altre due fasce», soggiungendo che «La distinzione in fasce non rileva ai soli fini del conferimento dell’incarico di cui al presente comma».

E’ pur vero che l’inciso appartenenti alle altre due fasce è stato impugnato dal Commissario dello Stato, con la motivazione che prima della legge regionale 10 del 2000 i dirigenti di terza fascia svolgevano funzioni direttive e non dirigenziali e ciò senza alcuna verifica delle loro capacità professionali ed attitudinali in relazione al nuovo incarico, ma – a parte la sostanziale smentita che si desume da quanto sopra illustrato – resta il fatto incontestabile che la scelta del legislatore, con la legge 10/2000, è stata quella di configurare anche la terza fascia come pienamente dirigenziale, cui si aggiunge l’altra circostanza, parimenti incontestabile, che da oltre un decennio i Governi regionali, compreso quello attuale, hanno attribuito incarichi apicali a dirigenti di terza fascia, come attesta anche il recente incarico al collega Gianni Silvia.

Ecco perché la sentenza del Tar di Palermo dello scorso maggio (caso Taormina-Russo c/ Monterosso), appare sconcertante, dato che non si è attenuta al testo vigente della norma in questione (art. 11, comma 5, della L. r. 20/2003, sopra riportato), facendo un improprio riferimento alla vicenda dell’impugnativa, non limitandosi ad interpretare il testo vigente, come prescrive l’art. 12 delle Disposizioni preliminari al codice civile: «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse…».

Invece, si è attribuita importanza preponderante all’opinione di un alto funzionario dello Stato, che ha impugnato (evidentemente in modo maldestro) il testo normativo.

Occorre infatti sottolineare che la Corte Costituzionale, pur prendendo atto della cassazione di tale inciso, non si è mai pronunciata nel merito dello stesso, cosa che avrebbe potuto fare soltanto se la Regione, mantenendo l’inciso contestato, avesse resistito all’impugnativa, attivando il relativo giudizio.

Quanto, poi, alla presunta adesione alla tesi del Tar da parte dell’Avvocatura dello Stato che difendeva (?) la Regione in tale giudizio, essa viene clamorosamente smentita dal parere della stessa Avvocatura dello Stato n. 10811 del 2007, secondo il quale tale norma (sempre l’art. 11 comma 5 della L. r. n. 20 del 2003), «consente ormai il conferimento, in via generalizzata, dell’incarico di dirigente generalea tutti i dirigenti regionali, indipendentemente dalla fascia di appartenenza…».

L’effetto che ne è derivato è una pesante mortificazione della dignità professionale della dirigenza regionale, che sembra funzionale, per converso, ad un ampliamento degli spazi della dirigenza c.d. manageriale (di natura fiduciaria), modello sul quale la Corte dei Conti – in sede di recente audizione in Senato sul d.d.l. di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni (AS 1577) -, ha formulato rilievi critici, osservando che esso privilegia, per gli incarichi dirigenziali, «non già il possesso di competenze specifiche legate alla conoscenza della complessa normativa dei settori di intervento, quanto il possesso di competenze manageriali che, come l’esperienza ha dimostrato, risultano di limitata applicabilità nell’ordinamento amministrativo».

Ad ogni modo, pur non producendo tale sentenza effetti erga omnes, occorre trovare una via di uscita.

Essendo ormai improponibile la procedura concorsuale già prevista – cui si dovrebbero sottoporre dirigenti che da quindici anni hanno svolto tutte le tipologie di incarichi, molti peraltro prossimi alla pensione – non resta, quale soluzione (così come previsto per le due fasce dirigenziali statali nel suddetto disegno di legge-delega), che l’abolizione della ormai anacronistica distinzione delle fasce dirigenziali, mantenendo l’inquadramento di tutti i dirigenti regionali nel ruolo unico, enucleando semmai talune specificità tecnico-professionali (ad es. Avvocati dell’Ufficio Legislativo, tecnici del Dipartimento Tecnico).

Il ruolo unico comporta tuttavia, così come prospettato a livello nazionale, la necessità di individuare (e soprattutto di applicare) stringenti procedure e criteri trasparenti ed oggettivi per il conferimento di tutti gli incarichi dirigenziali, volti ad individuare le migliori professionalità in relazione allo specifico incarico da conferire, impedendo – anche mediante il rafforzamento del sistema di controlli vigente – ogni forma di arbitrio ed abuso.

Insomma, è ora che competenza e merito vengano (finalmente!) riconosciuti nella Regione Siciliana.

Il tema va affrontato nell’ambito della prossima riforma – che si preannuncia epocale, comportando il riassetto complessivo del sistema Regione-Autonomie locali – i cui obiettivi fondamentali sono lo snellimento delle strutture e la riduzione dei costi, assieme ad un recupero di efficienza della macchina amministrativa.

Compito che appare difficilissimo – quasi la classica quadratura del cerchio – ma non impossibile, a condizione che si chiamino a raccolta tutte le migliori e responsabili energie (politiche, sindacali, professionali) di cui è dotata la nostra Regione, abbandonando una volta per tutte il deleterio approccio punitivo, dato che non possiamo permettersi un altro fallimento, in un momento cruciale come questo.

Lo dobbiamo al futuro della Sicilia.

Con viva stima,
Francesco Schillaci 

La nota del dottore Schillaci in sé è ricca di contenuti ed anche la linea politica di base (promozione competenze e professionalità) è condivisibile. Il problema di fondo è che la norma, come emendata dall’Ufficio del Commissario dello Stato e come emanata dall’Ars, esclude ogni equiparabilità tra dirigenti regionali di prima, seconda e terza fascia. La soluzione – e qui il dottore Schillaci ha ancora una volta ragione – non potrà che essere legislativa. Ma allo stato dei fatti e delle norme, la nomina di dirigenti di terza fascia come dirigenti generali rimane illegittima. Non siamo noi ad affermarlo, ma i giudici del Tar Sicilia. La sentenza sarà anche «sconcertante», ma non ci sembra che sia stata impugnata. 
g.a.

Redazione

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