Alessandro Di Maio è un giovane freelance che da Milazzo, passando per l'Australia, è giunto in Terra Santa per seguire l'amore di una ragazza e quello per il giornalismo. Negli ultimi giorni ha raccontato in diretta su Facebook l'ennesimo capitolo del conflitto israelo-palestinese: «Qui bisogna spesso affrontare la violenza della guerra, gli estremismi religiosi, atmosfere così tese e ostili da confondere anche la persona più colta e aperta mentalmente»
Di Maio, cronista siciliano in Israele «Qui conosco il mondo e me stesso»
Alessandro Di Maio ha 28 anni, una laurea in Scienze politiche e una vocazione per i viaggi e il giornalismo. Per conciliare queste due passioni qualche anno fa ha fondato LaSpecula.com, il primo settimanale online di notizie internazionali in Italia con giornalisti di tutto il mondo. Fotografo e giornalista freelance, è nato a Milazzo, ma è cresciuto tra la Sicilia e l’Australia. Vive da tre anni in Medio Oriente (casa sua la definisce scherzosamente «l’ambasciata di Sicilia in Terra Santa») dove lavora come corrispondente per alcune testate, italiane e non solo. In questi giorni ha seguito sul campo l’ennesima recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, postando su Facebook notizie e testimonianze di quanto succedeva in tempo reale tra Gerusalemme e Tel Aviv. Una terra che ha imparato ad amare e che per un siciliano è quasi un po’ casa.
Come sei arrivato dalla Sicilia a Gerusalemme? Cosa ti ha spinto a seguire questo percorso?
«Nel 2009 ho partecipato a un seminario di giornalismo in zona di conflitto tenuto proprio da queste parti. Al termine del seminario ho viaggiato per tutta la regione, visitando i campi profughi palestinesi, dormendo sui tetti delle case di Gerusalemme, incontrando i famigliari di chi aveva perso un figlio in guerra o in un attentato terroristico, scalando le montagne rocciose del deserto del Negev, ammirando il tramonto sul Mediterraneo che bagna Giaffa. Quel viaggio, uno dei più belli della mia vita, mi ha dato i primi elementi che caratterizzano le terre di Israele e Palestina, ovvero una bellezza straordinaria mischiata a una religiosità dirompente e al più complesso conflitto sulla Terra. Il giorno prima di tornare in Sicilia, mi innamorai di una ragazza del luogo».
Cos’hai fatto, allora?
«In Sicilia avevo finito l’università, mi era scaduto il contratto di lavoro e, non avendo cosa fare, decisi di ritornare per rivedere quella ragazza e riassaporare i colori e gli odori della Terra Santa, magari provando a scrivere per testate giornalistiche. I primi mesi furono duri: non avevo un lavoro, il visto mi scadeva in continuazione, vivevo in una specie di topaia e collaboravo solo con un giornale canadese. Poi ho iniziato a scrivere per qualche quotidiano e settimanale europeo. Adesso continuo a lavorare ma sto anche terminando un master in studi Islamici e Mediorientali all’Università di Gerusalemme».
Che cosa si prova a vivere in una terra complicata come il Medio Oriente?
«E’ una terra che trasmette sensazioni di diversa natura. Ogni giorno, ogni ora, a ogni angolo, è possibile, se si vuole, vivere aspetti diversi di questa regione, inoltrarsi in culture e religioni che sembrano non avere nulla in comune tra di loro ma che condividono moltissimo. Trovo che vivere e lavorare qui, a contatto con le popolazioni locali, sia molto stimolante ed educativo, soprattutto perché aiuta a rompere i tanti stereotipi coltivati in Occidente su ebrei, israeliani, arabi, musulmani e, ovviamente, sui conflitti israelo-palestinese ed arabo-israeliano».
Per un siciliano cosa vuol dire?
«In un certo senso, il Vicino e il Medio Oriente offrono a un siciliano un ritorno a parte delle proprie radici perché abbiamo molto in comune con queste persone».
Ma ci sono anche i lati negativi.
«Vivere qui non è tutto rose e fiori, bisogna spesso affrontare la violenza del conflitto tra israeliani e palestinesi, gli estremismi religiosi, atmosfere così tese e ostili da confondere anche la persona più colta e aperta mentalmente. Il Medio Oriente e le sue caratteristiche si apprendono piano piano, dopo molto tempo. Una settimana, un mese o poco di più non bastano».
Ci vuole molto tempo, quindi.
«Sono quasi tre anni che vivo qui e più tempo ci rimango, più mi ritengo confuso e consapevole di avere ancora tanto da imparare e da scoprire. Mi viene da ridere quando attivisti occidentali qui da qualche settimana o mese si comportano come esperti mediorientali, esperti del conflitto in grado di giudicare a destra e a manca. Non si rendono conto di essere strumentalizzati dalle parti in campo».
E cosa vuol dire per un giornalista vivere in questa terra?
«Per me vivere e lavorare come giornalista in Medio Oriente significa capire un pezzo di mondo, conoscere meglio me stesso, acquisire le conoscenza tecniche per migliorarmi umanamente e personalmente, essere costantemente sottoposto al fuoco delle propagande di entrambi i lati».
Che cosa hai provato la prima volta che hai sentito un’esplosione?
«Da quando vivo qui mi sono trovato più volte in situazioni poco piacevoli: sparatorie, scontri tra soldati e manifestanti, bombe piazzate alle fermate dell’autobus o nascoste sotto una panchina e granate in mezzo alla strada. Mi sono generalmente comportato in modo composto perché non lo ritenevo un rischio reale alla mia persona e le esplosioni non mi hanno fatto alcun effetto particolare».
Negli ultimi giorni è cambiato qualcosa?
«Ho provato qualcosa di diverso durante l’ultima escalation di violenza tra l’esercito israeliano e i miliziani islamisti della Striscia di Gaza. Quando questi ultimi hanno lanciato quattro missili a lunga gittata Fajr-5 ho sentito la sirena di allarme missilistico e ho avuto paura. Sapevo che per arrivare fino a Gerusalemme quei missili dovevano essere grandi e pericolosi. Le esplosioni si sono sentite a malapena perché i missili sono caduti nella parte meridionale della città, ma l’idea sapere di avere dei missili diretti contro la tua città, soprattutto se questa è la Città Santa tra le città sante, ti mette paura e ti fa capire che chi ha lanciato quei missili ha poca considerazione della morte altrui, anche della morte di coloro dai quali spera di essere appoggiato».
Qual è la situazione attuale?
«Molto complessa. La Siria è devastata da una guerra civile iniziata con la richiesta di più diritti e democrazia e giunta adesso all’anarchia, agli attentati terroristici e ai massacri di civili. Il Libano è influenzato da quanto sta accadendo in Siria e potrebbe ricadere in un vortice di violenza pari a quello della guerra civile di venti anni fa. La Giordania, proprio in queste ore, è scossa da forti manifestazioni contro re Hussein e il suo metodo di governo, considerato dagli islamisti troppo lontano dai precetti coranici. L’Egitto è un enorme punto interrogativo. Oggi è governato da un presidente dei Fratelli Musulmani, un partito islamista che sul fronte interno mostra il proprio astio nei confronti di Israele e degli ebrei, e sul lato internazionale mostra capacità di dialogo diplomatico e rispetto dei patti con Israele».
E poi ci sono Israele e Palestina.
«Dopo una guerra combattuta per nove giorni con razzi e attentati terroristici da un lato e con attacchi aerei dall’altra, mercoledì scorso si è ottenuto un accordo di cessate il fuoco che ha rasserenato gli animi. Nella Striscia di Gaza sono morte circa 150 persone, un terzo delle quali civili, mentre in Israele sei persone sono morte, metà delle quali civili. In più, per la prima volta nel conflitto, dei razzi – quelli di cui parlavo prima – sono stati sparati dalla Striscia di Gaza contro la parte più densamente popolata di Israele, in particolare contro le città di Tel Aviv e Gerusalemme. Questo significa che dall’ultimo cessate il fuoco, i gruppi islamisti di Gaza hanno avuto il tempo, il denaro, l’aiuto e la possibilità di riarmarsi. Credo che il cessate il fuoco durerà alcuni mesi. Poi si sgretolerà lentamente proprio come accaduto con quello raggiunto dopo l’operazione Piombo Fuso del 2009».
Come vive la città questo momento? Cosa pensa l’uomo comune di Gerusalemme?
«Dipende: l’israeliano comune pensa che dopo questo cessate il fuoco la gente del sud del Paese potrà godere di un po’ di pace, nel senso che per un po’ di tempo non dovranno subire il lancio di nuovi missili dalla Striscia di Gaza. Inoltre, dopo l’attentato terroristico che mercoledì mattina è stato compiuto contro un bus di Tel Aviv, la gente è davvero preoccupata e teme che si ritorni alla Seconda Intifada, quando attentati terroristici simili venivano organizzati ogni due-tre giorni».
E il palestinese medio?
«Pensa invece che ci sia stato un ennesimo attacco israeliano alla popolazione civile palestinese di Gaza. Bisogna anche sottolineare che tra i palestinesi economicamente e socialmente più poveri c’è stato chi ha accolto l’attentato terroristico e i razzi lanciati sulla popolazione civile israeliana con gioia o con un pizzico del cosiddetto “piacere di vendetta” per l’occupazione israeliana della Cisgiordania e per il blocco israeliano su Gaza».
E cosa ne pensano i giovani?
«Ripeto, dipende. Al loro interno israeliani e palestinesi sono estremamente frammentati in classi sociali e culturali diverse. Tra i palestinesi c’è chi a Gaza ha partecipato al lancio dei missili contro i civili israeliani, chi in Cisgiordania ha lanciato sassi contro i militari israeliani, chi ha definito gli organizzatori dell’attentato terroristico “dei bravi palestinesi”, chi ha condannato ogni tipo di violenza e lavorato insieme agli israeliani per la pace, chi pensa che questa guerra ha solo aumentato la forza di Hamas indebolendo quella del partito moderato Fatah».
Anche tra gli israeliani ci sono posizioni diverse?
«Sì. C’è chi ha sperato nella totale distruzione di Gaza, chi si è opposto all’operazione militare israeliana, chi invece l’ha sostenuta sperando che essa non causasse vittime tra i civili, chi si è dovuto rifugiarsi in un bunker ogni dieci minuti per ripararsi dall’arrivo dei razzi, chi è arrabbiato con il governo israeliano perché è stato costretto a lasciare temporaneamente le lezioni universitarie per essere richiamato nell’esercito. Ad ogni modo, in entrambe le parti, i giovani sono eternamente sotto stress, obbligati a vivere un conflitto con non li fa crescere come dovrebbero».
Sapendoti in questa zona così rischiosa, dopo quanto accaduto negli ultimi giorni, cosa dicono i tuoi cari?
«Rispettano le mie scelte. Nei momenti più duri sono stati un po’ in apprensione, ma credono in me e in quello che faccio. Per questo non mi contrastano. Mio padre dice: “Apri gli occhi e fa cose buone”. Credo sia la sua formula scaramantica, dice così da quando avevo 14 anni. Mia madre, in un misto di italiano, inglese e siciliano, dice semplicemente: “Attento chiama ogni tanto”».
[Foto di Alessandro Di Maio]