Depistaggio Impastato, tra omissioni, anomalie e archiviazioni «Pista mafiosa incomprensibilmente e frettolosamente esclusa»

«Impastato si è voluto suicidare in modo eclatante e cioè legando il suo nome a un attentato terroristico». È il 26 giugno 1978 quando Antonio Subranni, all’epoca comandante del reparto operativo del gruppo di Palermo, scrive questa nota. Lui, cui spetta la competenza esclusiva sulla direzione delle indagini per la morte del militante trovato dilaniato sui binari della ferrovia a Cinisi, non sembra avere dubbi, e sin dal principio. Non vaglia nessun’altra pista, la risposta è tutta in quella nota. Tuttavia, malgrado il giudice Walter Turturici abbia recentemente parlato di «vistose (se non macroscopiche) anomalie delle attività investigative dirette dallo stesso», e tra le tante tira in ballo l’«atto chiaramente abnorme del “sequestro informale” di documenti», come elementi riconducibili a un reato e che potrebbero condurre a un processo, ecco che scatta la prescrizione. Per lui, accusato di favoreggiamento, e per l’allora brigadiere Carmelo Canale e l’allora maresciallo Francesco Di Bono, a vario titolo coinvolti nelle indagini e accusati invece di concorso in reato e falsità ideologica commessa da pubblici ufficiali. Tutto archiviato, insomma, con buona pace di tutti.

Ma è un finale difficile da digerire. Specie se lo stesso giudice Turturici non risparmia un’analisi dura e senza sconti delle scelte fatte 40 anni fa. «L’esclusione, fin dal primo rapporto giudiziario sottoscritto dal maggiore, della prospettazione anche di una mera ipotesi investigativa relativa all’omicidio di Giuseppe Impastato per mano mafiosa appare difficilmente giustificabile, in quanto indicativa della incomprensibile omissione di una lettura di contesto del fatto investigativo – si legge nel dispositivo di archiviazione -. Detta lettura avrebbe dovuto doverosamente prendere le mosse dalla complessiva ricostruzione del vissuto di Giuseppe Impastato nello specifico contesto territoriale in cui si era dispiegata la sua azione, contesto notoriamente segnato dalla oppressiva presenza mafiosa, pubblicamente e costantemente denunciata dallo stesso Impastato. Un’inusuale attività di pubblica denuncia, avente di certo effetti dirompenti per i tempi e di ciò non poteva non avere acquisito contezza l’Arma dei carabinieri».

Ma non c’è traccia di questa «doverosa lettura di contesto» reclamata oggi dal giudice. Eppure gli elementi che avrebbero potuto da subito condurre all’ipotesi della pista mafiosa erano parecchi. Di contro, invece, a quelli dell’attentato terroristico finito male, che non si reggeva in piedi. «A Cinisi vi era consistente traccia della nefasta presenza della mafia, non certo di nuclei eversivi potenzialmente inclini a pratiche terroristiche di stampo dinamitardo – scrive il giudice -. In un rapporto informativo della stazione dei carabinieri di Cinisi, infatti, del 16 dicembre 1977 si affermava esplicitamente che Impastato e il suo gruppo “non sono ritenuti capaci di compiere attentati terroristici”. Allo stesso modo, l’allora dirigente della Digos di Palermo Alfonso Vella ha espressamente escluso la presenza anche di meri indizi o sospetti della presenza a Cinisi di un “nucleo terrorista”». Perché allora si punta tutto su quell’unica direzione, la meno probabile di tutte?

A Cinisi e nelle zone vicine non mancavano certo gli attentati, e nella maggior parte a venire impiegato era proprio quell’esplosivo da cava usato anche per far saltare in aria Impastato (mai confrontato con quello delle cave vicine). «Non si era trattato, però, di attentati dinamitardi con finalità terroristica-eversiva. Tutt’altro – scrive Turturici -. Si era trattato di attentati posti in essere dai gruppi mafiosi con finalità estorsiva». Tra le note di Subranni, però, non c’è traccia di questa pista mafiosa. Quella che «veniva invece aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente esclusa». Piste ufficiali vacillanti, quindi, ma anche omissioni e approfondimenti inesistenti. Come quelli sulla pietra insanguinata ritrovata nella primissima fase degli accertamenti all’interno di un casolare rurale nelle immediate vicinanze del luogo del ritrovamento del cadavere e al cui interno erano presenti ulteriori tracce di sangue. Nel rapporto redatto da Subranno il 10 maggio ’78, tuttavia, del casolare non c’è alcuna traccia. E nessuno, nemmeno lui, pensa di sentire il racconto dei casellanti del passaggio a livello poco distante dal luogo dell’esplosione. Una di questi è Provvidenza Vitale, sentita per la prima volta solo nel 2011.

«Incomprensibile e ingiustificabile». Sono le parole che più di tutte le altre ricorrono in quello che, però, alla fine resta pur sempre un atto di archiviazione. Un punto definitivo a comportamenti e decisioni che a distanza di 40 anni non sono più giudicabili, anche se le sensazioni che suscitano sono univoche e tali a quelle provate da Rocco Chinnici, che diede un impulso significativo invece alla tesi dell’omicidio mafioso. Salvo, poi, finire ucciso anche lui per mano di Cosa nostra nell’83. Anche se per il maggiore Tito Baldo Honorati, allora comandante del nucleo operativo del gruppo carabinieri di Palermo, la tesi mafiosa era stata «strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra» e che l’allora consigliere istruttore del tribunale di Palermo la sposava solo per «attirarsi le simpatie di una certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe aspirazioni elettorali». È il 20 giugno 1984, e da quel delitto sono passati già sei anni.

«Si vuole fare osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca anche superficialmente questioni di mafia, come una cosca potente e all’epoca dominante come quella facente capo a Badalamenti – scriveva Honorati – non sarebbe mai ricorsa per l’eliminazione di un elemento fastidioso a una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori di Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni. Si aggiunge che l’indagine è stata svolta con il massimo scrupolo e la possibile completezza e allo stato non esistono ulteriori possibilità investigative». Un quadro che, per dirla ancora con Turturici, «desta certamente stupore», per non dire impotenza rispetto a quello che ormai sembra condannabile solo a parole e non dentro a un’aula di tribunale.

«Per me è stata una brutta sorpresa, l’ho saputo dai giornali – racconta Giovanni Impastato -. Questo dimostra che non si vuole arrivare alla verità per quanto riguarda una questione piuttosto scomoda. Non si vogliono colpire i vertici delle istituzioni, che si sono resi complici indiretti dell’omicidio di Peppino, responsabili dell’affossamento della verità, ed è grave. Siamo indignati, con la prescrizione non si può chiedere più nulla. Tranne la restituzione di tutti i documenti sequestrati all’epoca: che almeno quelli possano tornare nelle nostre mani. Non penso si possa aggiungere altro».


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