Conduttrice televisiva di successo (ma ora in stand by), giornalista affermata e, da poco, anche scrittrice acclamata da pubblico e critica, Daria Bignardi ha presentato mercoledì il suo primo romanzo, “Non vi lascerò orfani”, al Coro di Notte del Monastero dei Benedettini.
Tra un libro da autografare e una mano da stringere non s’è affatto risparmiata, chiacchierando con tutti e rifiutando solo di mettersi in posa per le “fotoricordo col vip”. Nonostante la fretta e l’accavallarsi di impegni, Step1 è riuscito ad intervistarla.
“Non vi lascerò orfani” è il suo primo romanzo. Com’è stato cimentarsi con la scrittura narrativa venendo da esperienze di scrittura giornalistica?
«E’ molto diverso, e io l’ho scoperto facendolo. Lo sapevo da lettrice però non avevo mai provato. Be’, quand’ero ragazza avevo cominciato, come tutti, tanti libri orribili che sono finiti chissà dove, però è la prima volta che scrivo davvero. C’è il ritmo di tutto il libro da tenere in considerazione. Cioè, il libro deve stare in piedi nel suo insieme e quindi la lunghezza è determinante. Un articolo può essere dalle ottocento battute alle diecimila, ma l’importante è che regga. Moltiplica questo per un libro di centocinquanta, duecento, trecento pagine… La scrittura cambia, non può restare la stessa, è proprio un altro genere. E’ bello scoprire questa differenza».
Il suo percorso in tv l’ha portata in Rai e a Mediaset, fino ad arrivare a “Le invasioni barbariche”, su La7 (per poi traslocare di nuovo alla Rai). E’ stato il programma della svolta?
«Il primo programma che ho scritto è stato una svolta. Era “Tempi Moderni”, era su Italia1 un bel po’ di anni fa. Però “Le invasioni barbariche” sono il programma più maturo che ho fatto, il più mio. E’ il programma che più assomiglia a quello che facevo nella scrittura giornalistica, perché comunque si basa su delle domande che io mi scrivo, che mi preparo, e poi sono interviste molto lunghe… E’ una televisione che un po’ imita la scrittura».
Sotto il punto di vista della preparazione delle interviste, quant’è importante il lavoro della redazione che c’è alle spalle di programmi come “Le invasioni barbariche” e, più di recente, come “L’era glaciale”?
«E’ molto importante in televisione il lavoro di gruppo, dal regista agli autori. Fai conto che il conduttore spesso è come il direttore di un giornale che, in più, ci mette anche la faccia, deve fare la performance, che è qualcosa di attorale, di fisico, se vogliamo. Un direttore non può fare un giornale da solo, così un programma televisivo».
Dopo ventiquattro puntate e quasi un centinaio di interviste, “L’era glaciale” ha chiuso i battenti nel 2009. Doveva tornare in onda nel 2010, ma non è stato così e sul perché non c’è stata chiarezza…
«Ricomincerà più avanti, ne sono certa…».
Lei ha sconsigliato ai giovani, con una battuta, di iscriversi alla facoltà di Scienze della Comunicazione. Perché?
«In realtà non è che ne so molto, però vedo moltissimi giovani venire da lì. Mi viene da dire che visto che c’è tutta questa offerta, forse ci si fa notare di più con una laurea tradizionale, tipo Lettere o Lingue, Giurisprudenza, Scienze Politiche o qualunque altra cosa che t’interessi. Scienze della Comunicazione mi sembra, ultimamente, una laurea abusata. Parlo davvero per sentito dire, ma nella velocità del tempo di un colloquio magari ti colpisce di più uno che s’è laureato in filosofia».
Quindi per fare il giornalista non è neanche troppo importante il titolo di studio. Serve scrivere e basta?
«Bisogna fare pratica sul campo, sì. Iniziando magari dal bassissimo. Anche ai miei tempi si diceva che non avrei mai trovato posto, e che adesso è peggio è verissimo. Però, secondo me, se uno ci crede fa bene a provarci. Non diciamo “no, fai altro”, perché è ingiusto. Bisogna essere disposti a molti sacrifici: io ho cominciato a guadagnare poco più del minimo di sussistenza quando avevo già trentaquattro anni. Infatti il primo figlio l’ho fatto a trentacinque».
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