Dacca, in tribunale imprenditori delle stoviglie in plastica Procura vuole rinvio a giudizio per bancarotta fraudolenta

Negli scaffali dei supermercati le confezioni di posate in plastica sono sempre di meno. Le rimanenze di magazzino – le uniche che è possibile ancora vendere, dopo che l’Europa ha bandito l’uso delle stoviglie simbolo di un’era in cui il sentimento ambientalista cedeva il passo al consumismo meno etico – spiccano accanto a forchette e cucchiai biodegradabili. Sta anche in questo mutamento, inevitabile, l’origine del declino della Dacca, storica industria di Aci Catena che da qualche anno ha chiuso i battenti. Un pezzo di storia non solo locale, considerato che il simbolo delle cento lire impresso sul fondo dei piatti per decenni è stato possibile trovarlo ben oltre i confini regionali. Tali vicende hanno però avuto strascichi giudiziari, di cui fin qui non si era saputo nulla ma che da oggi inizieranno a essere esaminate in tribunale: è fissato, infatti, per questa mattina l’inizio dell’udienza preliminare di un procedimento che vede alla sbarra i vertici di Dacca Monouso spa e Dacca srl, le due principali realtà imprenditoriali che hanno dato lustro alle famiglie D’Agostino e Catalano. L’accusa è quella di bancarotta fraudolenta.

A comparire davanti al gup saranno in dieci. La richiesta di rinvio a giudizio è stata formulata dalla procura nei confronti degli amministratori di Dacca Monouso, Giacomo Nicola D’Agostino (cugino del deputato regionale, quest’ultimo non coinvolto, ndr), Alfio Spinella e Salvatore Catalano; e per gli omologhi di Dacca srl, Giuseppe Catalano, Giuseppe D’Agostino e Rosario Siscaro. Ad amministrare la srl – fallita a febbraio 2020, mentre a ottobre 2019 risale il fallimento della Monouso – è anche Salvatore Catalano. Chiamati a comparire saranno anche i componenti dei collegi dei sindaci Antonio Giuffrè, Matilde Politi, Salvatore Licciardello e Rosario Calabretta.

Per l’accusa, rappresentata dal sostituto Fabio Regolo, gli imprenditori si sarebbero resi protagonisti di condotte illecite nella gestione finanziaria delle due società. Azioni che avrebbero comportato un aumento dei debiti nei confronti dei principali creditori, ovvero erario e istituti di previdenza. Al vaglio del gup, chiamato a esaminare la richiesta di rinvio a giudizio, ci sarà il trasferimento di 12,8 milioni di euro compiuto, tra il 2013 e il 2019, dai conti di Dacca Monouso a quelli di Dacca srl. Di tale cifra, circa otto milioni sarebbero stati pagati sulla base di una clausola inserita nel contratto d’affitto di ramo d’azienda che prevedeva anticipi finanziari, mentre la restante parte «senza alcun fondamento contrattuale». In ogni caso, per la procura l’intero importo sarebbe stato erogato «senza alcuna ragione economica sottostante alla gestione di impresa della Dacca Monouso spa e con l’unico obiettivo di consentire a Dacca srl, di celare la propria situazione di conclamata insolvenza». 

Nella richiesta di rinvio a giudizio, infatti, si ricorda che la società beneficiaria delle erogazioni «già nel 2014 aveva cessato le proprie attività industriali», limitandosi a incassare i canoni di locazione versati dalla società sorella. Ad aggravare la crisi della Dacca srl, e di conseguenza rendere impossibile per Monouso il recupero delle somme, sarebbero state le perdite di esercizio per 7,2 milioni e un «patrimonio ridotto ad appena 30mila euro». A imprenditori e collegi sindacali viene contestato dal pm anche l’avere pregiudicato un possibile futuro allo stabilimento. «Dacca Monouso – si legge nel secondo capo d’imputazione – erogando le somme rinunciava ai necessari ammodernamenti delle linee produttive propedeutici alla riconversione dell’attività industriale necessaria in conseguenza del provvedimento del Parlamento europeo del 24 ottobre 2018 in tema di stoviglie monouso e si privava della liquidità necessaria a sostenere la propria attività commerciale, arrivando a maturare un debito accertato in sede fallimentare per circa 32 milioni di euro».

Gli amministratori di Dacca srl e Siscaro nella veste di liquidatore sono accusati di avere aggravato il dissesto della società «per effetto di operazioni dolose». Tra cui un ritardo nella messa in liquidazione della società, il rinvio del pagamento di imposte e contribuzione e il dilazionamento dei pagamenti dei fornitori senza depositare la richiesta di fallimento in proprio. Scelte che per la procura avrebbero aggravato l’esposizione debitoria «fino ad arrivare a oltre 20 milioni di euro».


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