Partito come sodale del figlio del capo dei capi, il 56enne avrebbe fatto strada negli anni. Prima con la torrefazione e il commercio del caffè, poi con l'ingresso nel mondo del gioco online. Diventando direttore strategico di un'impresa ben vista dai mandamenti
Da reclutatore di Riina jr alla holding delle scommesse Franco Maniscalco, «cerniera tra mafia e imprenditoria»
Un ragazzo «con le palle». Così era considerato Francesco Paolo Maniscalco all’interno delle più alte sfere di Cosa nostra. Il 56enne è finito in manette nell’operazione All-in, che ha svelato l’enorme mole d’affari che la mafia riusciva a fare con il gioco online. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, Maniscalco pare godesse del rispetto di tutti, tanto che la sua sarebbe stata una figura chiave in quanto «garante e collettore degli interessi patrimoniali di Cosa nostra nelle attività economiche che fanno capo al gruppo imprenditoriale di Salvatore Rubino, sia in riferimento alla rete di raccolta collegata a diritti e concessioni governative sia alla raccolta di giochi e scommesse illegale», come scritto nelle carte del gip. Una figura capace di unire in affari famiglie appartenenti a mandamenti diversi, come quello di Pagliarelli, Porta Nuova, Brancaccio-Corso dei Mille e Palermo Centro.
Condannato per diversi reati, tra cui spicca quello di associazione mafiosa già nel 2006, sul suo curriculum da affiliato a Cosa nostra spiccano frequentazioni di alto calibro. Amico e sodale di Giuseppe Salvatore Riina, per cui avrebbe anche svolto il ruolo di reclutatore con il compito di «capitare i cristiani», uomini di fiducia da utilizzare per la raccolta del pizzo, proprio sotto l’ala del figlio di Totò ha potuto sviluppare le sue doti imprenditoriali, gestendo insieme a lui le sue prime attività economiche ed entrando nel mondo del commercio del caffè. Un business piuttosto caro a Cosa nostra negli ultimi anni, che costerà a Maniscalco una seconda condanna, nel 2016, per «avere trasferito fraudolentemente una serie di beni facendoli intestare a persone terze».
Secondo le parole di Filippo Bisconti, boss di Belmonte Mezzagno pentitosi dopo l’arresto nell’operazione Cupola 2.0, Maniscalco sarebbe stato «uomo d’onore della famiglia di Palermo Centro», dominato da Salvatore Cillari, con cui avrebbe avuto delle partnership imprenditoriali proprio nel settore del gioco. Ma il 56enne avrebbe anche intrattenuto proficui rapporti di collaborazione anche con altri pezzi grossi dei mandamenti palermitani come Totò D’Ambrogio e Peppino Dainotti, vertici della famiglia di Porta Nuova. A rivelarlo è stato un altro collaboratore di giustizia, Sergio Flamia. Insomma, per usare le parole del gip, Maniscalco avrebbe fatto da «cerniera tra Cosa nostra e il mondo imprenditoriale».
Il mondo imprenditoriale di Maniscalco era costellato di attività: dal Caffè Florio fino ai bar dove si poteva giocare online, ma anche i centri scommesse che gli avrebbero garantito una grossa disponibilità economica in grado di dare linfa alla trama di rapporti affaristici tessuta con il sodale più fidato, Salvatore Rubino. Una vera e propria holding nel campo dei giochi e delle scommesse online in cui Maniscalco avrebbe svolto le funzioni di supervisore e di direttore strategico. Per gli uomini d’onore di Cosa nostra sarebbe stato anche «affidabile punto di riferimento per la risoluzione delle problematiche insorte».
Esemplare il caso dell’ingresso, nel capitale sociale di una delle controllate della holding, di una società riconducibile ai fratelli Camilleri, ritenuti affiliati al mandamento di Pagliarelli. La quota di Camilleri sarebbe stata liquidata per mano dello stesso Maniscalco, con l’intervento addirittura di Settimo Mineo. L’uomo individuato dagli inquirenti come il nuovo capo della ricostituita commissione provinciale di Cosa nostra.